Natale col Covid, Pistoi: "è il momento di smetterla di rincorrere le bacchette magiche"

Milano, 23 dicembre 2021: in questa farmacia, come in molte altre, i tamponi sono esauriti per via del boom di richieste
Milano, 23 dicembre 2021: in questa farmacia, come in molte altre, i tamponi sono esauriti per via del boom di richieste Diritti d'autore Luca Bruno/Copyright 2021 The Associated Press. All rights reserved
Di Antonio Michele Storto
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intervista a Sergio Pistoi, biologo molecolare e divulgatore. "Si continua a privilegiare un approccio esclusivamente diagnostico - o peggio, burocratico - a scapito di sorveglianza e autotutela"

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Il Natale è ormai arrivato, e fino all'ultimo pareva che almeno quest'anno lo si sarebbe trascorso in maniera quasi normale.

A scombinare le carte ci ha pensato, con un tempismo che definire beffardo è ormai eufemistico, la variante Omicron: segnalata a fine novembre dalle autorità sanitarie del Sud Africa, in neppure 4 settimane ha rimesso in discussione ogni certezza faticosamente costruita dagli amministratori di mezzo mondo.

Una delle ultime certezze a cui le autorità italiane (come del resto quelle francesi, che da questo punto di vista se la passano anche peggio) si erano pervicacemente aggrappate riguardava il fatto che la fulminea avanzata del nuovo ceppo potesse risparmiare almeno queste vacanze.

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la fila fuori da una farmacia per i tamponi anti-Covid a Milano, 23 dicembre 2021Luca Bruno/Copyright 2021 The Associated Press. All rights reserved

"La variante non è ancora diffusa in modo significativo" diceva domenica, intervenendo a "Che tempo che fa", il ministro della Salute Roberto Speranza. "Abbiamo un vantaggio e dobbiamo mantenerlo, anche se sappiamo che non durerà a lungo".

E a lungo, in effetti, non è durato: perché nel pomeriggio dell'antivigilia, l'Istituto superiore di Sanità ha reso noto che il nuovo ceppo - secondo i risultati preliminari di uno studio - sarebbe già responsabile di quasi un terzo dei nuovi casi, con un raddoppio delle infezioni ogni due giorni.

Blindati per Covid

E così eccoci qui, con i locali notturni che a poche ore dalla Vigilia si ritrovano di nuovo a ricevere disposizioni immediate di chiusura, mentre perfino i vaccinati con terza dose - viste le ultime notizie - intasano le farmacie alla ricerca di test e tamponi rapidi, per sapere se almeno il pranzo di Natale potranno passarlo coi parenti.

Nel frattempo, più di un esperto ci aveva provato a dire che, se la nuova variante in Italia non c'era, forse era perché non la si stava cercando abbastanza: quanto a sequenziamento genomico dei tamponi, in effetti, l'Italia e la Francia - ovvero i paesi che più si sono mostrati ottimisti sui numeri del nuovo ceppo - sono tra i fanalini di coda in territorio comunitario.

Di questo e molto altro, alla vigilia del secondo Natale "chiuso per virus" abbiamo voluto parlare con Sergio Pistoi, biologo molecolare con esperienza decennale in attività di ricerca e laboratorio, nonché consulente del progetto europeo CoronaDx, collaboratore di testate come Scientific American, Nature e Reuters Health, oltre che divulgatore con il progetto RockScience, piattaforma multimediale e dal taglio ironico, rivolta soprattutto ai più giovani.

EN: Dottor Pistoi, bentornato su Euronews. Veniamo subito al dunque: è vero, come si è detto nei giorni scorsi, che in paesi come l'Italia non si sequenzia o almeno non abbastanza?

SP: No, o almeno non del tutto. L'Italia ha decine di laboratori che sono in grado di leggere la sequenza genomica dei virus, e lo fanno anche bene. Quello che manca, semmai, è la volontà di coordinarli, di metterli a sistema. E questo accade perché nel nostro paese l'idea di diagnostica continua a prevalere su quella di sorveglianza

E qual è la differenza?

È una differenza di approccio, di obiettivi. Nel nostro paese oggi si eseguono moltissimi tamponi, ma un tampone molecolare è in grado di dirci semplicemente se il virus è presente o meno nell'organismo di un soggetto. Quando eseguiamo un test molecolare, generalmente andiamo a ricercare due o tre bersagli all'interno del genoma del virus, e questo ne determina la semplice presenza. Il totale dei tamponi positivi ci restituisce la diffusione della malattia Covid, ma non ci dice praticamente nulla sull'emergere e sul diffondersi di nuove varianti. Per questo bisognerebbe compiere un ulteriore passaggio, ovvero trasportare i campioni nel laboratorio più vicino che sia in grado di leggerne l'intera sequenza genomica, così da identificarne il ceppo

Si tratta di un processo che presenta eccessive difficoltà?

Non esattamente. È una cosa che oggi può essere fatta in maniera piuttosto agevole, e in effetti molto spesso la si fa. Con le stesse tecnologie, con la medesima macchina, attualmente possiamo leggere nel giro di qualche ora un genoma umano, che è composto da diversi miliardi di lettere o nucleotidi, e un genoma virale, che è composto da 30mila lettere. Quest'ultimo si legge in pochi minuti e pertanto l'operazione può essere ripetuta decine di volte al giorno

Quindi perché oggi Israele e Gran Bretagna sequenziano, rispettivamente, il 50 e il 18 per cento dei campioni positivi, mentre Italia e Francia circa il 2?

Si tratta di una sfida che è soprattutto logistica, e che finora non si è voluto raccogliere.

Mi sembra che, come quasi sempre accade in Italia, il problema sia mettere a sistema delle risorse che già ci sono: il che, banalmente, significa che si dovrebbe ad esempio individuare una serie di laboratori che effettuino il sequenziamento e che siano più vicini possibile a quelli che fanno i test rt-pcr (test molecolari, nda).

In queste situazioni si tende spesso a dire che mancano le risorse, ma non è esatto. Fu lo stesso per i tamponi: all’inizio della prima ondata in Italia non si riuscivano ad eseguire, si diceva mancasse la capacità logistica. Ma nel giro di qualche settimana si passò da 30mila a 150mila tamponi al giorno, che oggi sono diventati 400-500mila. È chiaro, dunque, che a mancare è la volontà politica di coordinare e organizzare

A proposito di test e tamponi: da poco è scattata la corsa ai test rapidi, da parte di vaccinati e non. Ma nelle ultime settimane si è detto spesso che inserirli nel Green pass sia stato un errore, perché questi test si presterebbero al cosiddetto"falso negativo", favorendo il contagio. Lei cosa ne pensa?

Che, come per qualsiasi strumento, dipende da come li si usa. E qui torniamo al discorso di prima: è una questione di diagnostica, sorveglianza e autotutela. I tamponi rapidi, perlomeno se di buona qualità ed eseguiti correttamente, sono un ottimo strumento di autotutela, e volendo anche di sorveglianza, se usati con criterio dalle autorità sanitarie.

Ma è vero che inserirli nel green pass con una validità di 48 ore è un compromesso che ha avuto un senso piuttosto limitato

E perché?

Perché, a differenza di un test molecolare - che è in grado di rilevare anche pochissime molecole di Rna virale nell'organismo - un test antigenico, ammesso sia di buona qualità, fornisce un responso positivo soltanto quando la carica virale nel soggetto oltrepassa una certa soglia, che in genere corrisponde alla cosiddetta soglia di contagiosità. Il test rapido, dunque, ci dice se qualcuno è contagioso, qualora oltrepassi una certa soglia di carica virale.

Il green pass, in questo senso, ha una sua utilità a livello collettivo, perché obbliga un tot di persone non vaccinate a sottoporsi a test di controllo ripetuti, il che contribuisce ad abbassare il rischio statistico di contagio per tutti. È meglio di niente, se lo si prende con i suoi limiti.

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Il problema è credere che una persona con un test negativo possa essere poi a posto nelle 48 ore successive. Questo falso senso di sicurezza oggi sono in molti ad averlo.

E dunque la corsa ai test rapidi degli ultimi giorni è del tutto inutile?

Niente affatto; ma anche qui, a patto di capire cosa sia una strategia di autotutela.

Se una famiglia si sottopone al test rapido con l'idea di riunirsi per il cenone della Vigilia, allora non ha senso che lo esegua 48 ore prima, perché ormai sappiamo che la carica virale in un soggetto positivo può aumentare anche molto repentinamente: ci sono casi documentati di persone che, con due test rapidi ripetuti a distanza di poche ore l'uno dall'altro, hanno ricevuto prima un responso negativo e poi positivo.

Quale sarebbe, dunque, l'uso corretto?

L'uso corretto discende dalla comprensione del fatto che un test rapido non rappresenta una diagnosi, ma la fotografia di uno stato di contagiosità, che può cambiare anche in una manciata di ore.

Per cui, se mi riunisco con la famiglia, il test va fatto poco prima o subito prima di sedersi a tavola. Tenendo però a mente che, anche in questo caso, serve organizzarsi: magari portandosi dietro qualche test in più, per ripeterlo in caso di positività. E, purtroppo, tenendosi pronti all'eventualità che, se qualcuno risultasse positivo, fosse pure la nonna, per il suo bene e per quello di tutti bisognerà chiederle di tornare a casa e isolarsi.

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Questo, peraltro, ovvero ripetere test rapidi una o più volte la settimana, è ciò che andava fatto e non si è voluto fare nelle scuole

E perché?

Perché in Italia siamo innamorati dell'idea della 'pallottola magica', della soluzione miracolosa: negli ultimi mesi si è trattato di vaccino e green pass; prima erano le mascherine e il metro di distanza.

Ma queste misure hanno senso quando vengono usate con criterio, e soprattutto quando il criterio può essere decifrato e adottato dal cittadino comune. Al quale invece si preferisce propinare, per l'appunto, l'idea della pallottola magica

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