Il nuovo obiettivo di spesa della Nato prevede un 1,5 per cento per le spese non militari. La sua interpretazione, tuttavia, è vaga e potrebbe innescare divisioni "opportunistiche"
I leader della Nato si stanno preparando a sancire un obiettivo senza precedenti: portare la spesa militare complessiva al 5 per cento del prodotto interno lordo entro il 2035. Si tratta di un aumento significativo rispetto alle percentuali attuali, con la maggior parte dei Paesi membri che investe meno del 3 per cento in difesa.
Attualmente, soltanto cinque Paesi — Polonia, Estonia, Stati Uniti, Lettonia e Grecia — superano il 3 per cento, con valori che variano tra il 3,08 e il 4,12 per cento.
Raggiungere il 5 per cento rappresenterebbe un impegno economico enorme per quasi tutti gli alleati, che dovranno riorganizzare le proprie priorità di bilancio e affrontare possibili tensioni interne legate all’aumento della spesa militare.
La composizione dettagliata del nuovo target di spesa
Il 5 per cento previsto dal nuovo accordo Nato non è un obiettivo monolitico. La parte più consistente, il 3,5 per cento del Pil, è destinata a spese militari di base: acquisto e manutenzione di armamenti, tecnologia militare, addestramento delle truppe e logistica. Questo include l’acquisto di carri armati, aerei da combattimento, droni, munizioni e sostegno operativo alle forze armate.
La quota restante, pari all’1,5 per cento del Pil, è invece riservata a investimenti più “fluibili” ma altrettanto cruciali, come infrastrutture civili — strade, ponti, porti, magazzini — e sistemi di sicurezza informatica volti a proteggere reti energetiche e comunicazioni strategiche. Questa distinzione però ha sollevato interrogativi su cosa possa essere effettivamente considerato spesa “legata alla difesa” e quali investimenti possano essere conteggiati nel bilancio militare.
Le criticità e le ambiguità dell’1,5 per cento
L’area dedicata all’1,5 per cento del PIL è stata definita dagli esperti come una zona grigia soggetta a interpretazioni molto diverse da Stato a Stato. Il think tank tedesco Bertelsmann Stiftung ha messo in guardia contro il rischio di “contabilità creativa”, ovvero la possibilità che i Paesi membri usino criteri opportunistici per far rientrare nella spesa militare anche investimenti civili o infrastrutturali che poco hanno a che vedere con la sicurezza e la difesa militare.
Questo potrebbe generare disallineamenti e difficoltà nella cooperazione tra alleati, mettendo a rischio la trasparenza e la fiducia all’interno dell’Alleanza. In particolare, il think tank ha suggerito che la Nato dovrebbe istituire un processo di pianificazione delle capacità più strutturato e vincolante, con obiettivi chiari e condivisi, per evitare che l’interpretazione “flessibile” del bilancio militare diventi uno strumento di divisione.
La questione del vincolo sull’obiettivo di spesa
Un aspetto controverso riguarda la natura vincolante dell’obiettivo. Una lettera della Nato inviata di recente al primo ministro spagnolo Pedro Sánchez sembra lasciare ampi margini di discrezionalità ai singoli Stati.
La comunicazione afferma infatti che la Spagna “avrà la flessibilità di determinare il proprio percorso” per raggiungere gli obiettivi di capacità militare stabiliti, aprendo la porta a richieste simili da parte di altri Paesi.
In pratica, ciò potrebbe significare che alcuni membri non siano obbligati a raggiungere esattamente il 5 per cento, purché dimostrino di sviluppare le capacità militari richieste dall’Alleanza. Questo punto lascia aperto il rischio di un’imprecisione negli impegni e di un’applicazione non uniforme del target, minando la credibilità dell’obiettivo stesso.
Le preoccupazioni espresse dalla Spagna e altri Paesi
La Spagna è stata tra i membri più critici nei confronti dell’aumento drastico della spesa militare. Il primo ministro Sánchez ha espresso timori circa l’impatto economico di un simile impegno, sostenendo che destinare il 5 per cento del Pil alla difesa potrebbe rallentare la crescita economica e aggravare il debito pubblico.
Attualmente, la spesa spagnola per la difesa si attesta intorno all’1,28 per cento del Pil, uno dei livelli più bassi nell’Alleanza, il che rende la sfida del raddoppio della spesa ancora più complessa. Questa posizione riflette un più ampio dibattito tra gli Stati membri su come bilanciare la sicurezza nazionale con le esigenze di sviluppo economico, soprattutto in un contesto di ripresa post-pandemica.
Il percorso e le scadenze verso il 2035
L’accordo prevede una progressione graduale: entro il 2035 tutti i membri dovranno raggiungere la soglia del 5 per cento del Pil destinata alla difesa. È prevista una revisione intermedia della “traiettoria di spesa” a metà del 2029 per monitorare i progressi e, eventualmente, correggere il percorso.
Questo processo di controllo è fondamentale per garantire che i Paesi mantengano impegni concreti e coerenti nel tempo, ma resta da vedere quanto efficace sarà il meccanismo nel tenere sotto controllo le divergenze nazionali.
Nel frattempo, l’Alleanza deve affrontare la sfida di mantenere la coesione politica e la fiducia tra alleati con economie e priorità molto diverse, in un contesto internazionale sempre più complesso e instabile.