La leader birmana non esclude, però, la possibilità che l'esercito abbia risposto in modo sproporzionato e che, in alcuni casi, ci siano state violazioni del diritto internazionale umanitario
Aung San Suu Kyi respinge ogni accusa. Il Premio Nobel per la pace 1991, davanti alla Corte penale internazionale dell'Onu all'Aja, che accusa il Myanmar di pulizia etnica nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya, nega fermamente che si sia trattato di genocidio, come si sostiene invece nel rapporto presentato dal Gambia. Il Paese africano, a maggioranza musulmana, ha avuto il sostegno dei 57 membri dell'Organizzazione della cooperazione islamica (OIC).
Il Consigliere di Stato - una volta celebrata come un'icona nella lotta contro la dittatura birmana e oggi ampiamente contestata per non aver preso posizione - ha sostenuto che gli interventi dell'esercito birmano siano stati una risposta agli attacchi compiuti dai ribelli Rohingya, ma non ha escluso che, in alcuni casi, ci siano state violazioni del diritto internazionale umanitario. Violazioni che, sempre secondo le parole della premier, verranno punite.
Ministro degli Esteri del Myanmar e leader di fatto del paese dal 2016, Aung San Suu Kyi non ha il controllo sui militari, ma è accusata dalle Nazioni Unite di essere loro complice, nella persecuzione della minoranza musulmana, iniziata nel 2017. Tra gli episodi contestati ci sono casi di stupro, saccheggio, distruzione di villaggi e comunità e omicidi di massa. Azioni che la leader non ha mai condannato, ma che continuò a minimizzare anche di fronte a testimonianze finite sotto gli occhi del mondo intero.
Una persecuzione che ha provocato la morte di migliaia di persone e la fuga verso il vicino Bangaldesh di altre 700.000. Kutupalong, il più grande campo della parte sudorientale del Paese, ospita oltre 600.000 profughi.