Bangladesh: l'isola della discordia accoglierà 100.000 Rohingya

Bangladesh: l'isola della discordia accoglierà 100.000 Rohingya
Di Monica PinnaRoberto Alpino
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Ad un'ora in barca dalla terra più vicina, un'isola in Bangladesh si prepara a ricevere 100.000 Rohingya: un anno fa, intanto, l'esodo che portò 720.000 rifugiati oltreconfine

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In Bangladesh, un'isola si prepara a ricevere 100.000 rifugiati Rohingya.

Più di mille le case in costruzione in quest'area, distante un'ora in barca dalla terra più vicina.

Nonostante il ritardo nei lavori, l'inaugurazione rimane fissata per il 3 ottobre prossimo.

Bhashan Char è una piccola isola emersa nel Golfo del Bengala poco più di 10 anni fa: si tratta di una striscia di terra inospitale e soggetta a inondazioni.

L'alta esposizione ai cicloni tropicali rende la rotta marittima un'avventura assai pericolosa, tuttavia il Governo del Bangladesh continua a sostenere la fattibilità della soluzione.

Ayesha Fardaus, Parlamentare:

"Bhashan Char è molto vasta e può ospitare più di 100.000 rifugiati Rohingya, siamo in grado di aiutare più di un milione di persone".

Diversi gruppi per i Diritti Umani hanno chiesto al Bangladesh di abbandonare il progetto, tuttavia, con i campi profughi sovraffollati e dopo un investimento di $ 280 milioni in infrastrutture, il Governo procederà nella prima fase con il trasferimento di circa 50 famiglie.

Un anno dopo l'esodo

Unchiprang è un insediamento spontaneo con oltre 23 mila Rohingya a Teknaf, nel Bangladesh meridionale. L’anno scorso non esisteva. Oggi un milione di Rohingya vivono in insediamenti simili, in campi ufficiali o con le comunità locali.

E’ passato un anno da quando 720mila Rohingya sono stati costretti a scappare in Bangladesh in seguito a una violenta repressione militare in Myanmar. Siamo tornati in Bangladesh per vedere se sono cambiate le loro condizioni di vita in uno dei paesi più poveri al mondo.

L’esodo iniziato lo scorso anno non è stato il primo per la minoranza musulmana del Myanmar. Tuttavia è il più significativo. Secondo l’Onu, la camapagna militare lanciata in Myanmar nell’agosto del 2017 ha sempre più le caratteristiche di un genocidio.

Nessuno sa quanti Rohingya siano stati uccisi. Ma l’ultimo rapporto pubblicato da un pool indipendente di ricercatori, parla di 24 mila morti dall’inizio dell’offensiva nel Rakhine del Nord, dove i Rohingya vivono da generazioni.

Vengo da Tula Toli. Ho visto soldati uccidere civili e poi buttare i corpi in acqua. Ho visto donne violentate. Per questo sono venuto via”, ci racconta un rifugiato.

Il villaggio di quest'uomo è noto per essere stato teatro di uno dei massacri più violenti della repressione. I rifugiati hanno trovato un posto sicuro in Bangladesh e un’assistenza di base.

I campi però sono sovraffollati e costruiti in fretta per far fronte a questa crisi tra le più repentine e massicce al mondo.

L’Unione Europea, tra i principali donatori in Bangladesh fa appello alla comunità internazinale perché non dimentichi questa emergenza: “I rifugiati oggi hanno accesso all’acqua, a un riparo, al cibo, però hanno bisogno di istruzione”, sottolinea Daniela D’Urso, Direttrice del Dipartimento di aiuti umanitari dell’UE, “Hanno bisogno di protezione e di mezzi di sostentamento. Non possono muoversi liberamente tra i campi. Non possono lavorare e non hanno diritto a ricevere un’istruzione”.

Soltanto camminando in mezzo al campo di Unchiprang si vede quanto sia stato fatto, ma anche quanto sia difficile mantenere condizioni dignitose con una crisi che si protrae nel tempo.

La qualità dell’acqua e dei servizi igienici sono tra i rischi maggiori per la salute dei rifugiati. L’ONG Solidarités International è specializzata in questo settore.

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Reda Bendahmane, coordinatore dell’Associazione, spiega che non ci sono epidemie. “Tutto al momento è sotto controllo. In questo modo contribuiamo a migliorare le condizioni di salute nel campo. Ora stiamo pensando alla tenuta delle infrastrutture. Stiamo lavorando in modo da renderle sostenibili sul medio e lungo termine”.

Il Bangladesh ha chiesto alla comunità internazionale di aumentare la pressione su Myanmar per assicurare il rimpatrio di Rohingya. Ma la minoranza mussulmana del Myanmar si rifiuta di ritornare senza garanzie.

Vogliamo giustizia per il genocidio in atto”, racconta un rifugiato_, “Vogliamo che il governo del Myanmar ci riconosca come cittadini atrimenti non torniamo indietro. Non vogliamo vivere sotto capanne di tela, ma vogliamo un riconoscimento_”.

Mentre il Bangladesh e la comunità internazionale stanno moltimplicando gli sforzi per sostenere i Rohingya, l’unica soluzione a lungo termine può arrivare dal Myanmar ed è politica.

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