Chernobyl, parola agli esperti a 30 anni dal disastro che ha mutato la percezione del nucleare civile

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Di Andrea Neri
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L'Istituto Nazionale di Lingue e Culture Orientali di Parigi ha organizzato una conferenza per il XXX anniversario

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Trent’anni fa il reattore numero 4 della centrale nulceare di Chernobyl esplode dopo un test sperimentale sul sistema di raffreddamento che porta ad un incendio e a due successive esplosioni nella testa del reattore. È l’1 e 23 minuti del 26 Aprile 1986. L’RBMK sovietico è un reattore moderato a grafite, materiale che innesca un brusco aumento di potenza al momento dell’innesto delle barre di controllo. Fu questo uno degli elementi che portarono all’esplosione nella fase conclusiva del test.

Tecnicamente non si trattò di un’esplosione nucleare ma le conseguenze in termini di elementi radioattivi rilasciati nell’atmosfera furono 100 volte superiori agli effetti combinati delle atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki.

Da allora il mondo intero non ha mai più guardato al nucleare civile con gli stessi occhi. Da allora non ha fatto che aumentare la quantità di studi, ricerche, indagini ed analisi sull’incidente ma anche di libri, film, produzioni artistiche di ogni tipo che hanno avuto come punto di partenza e d’ispirazione Chernobyl o il concetto stesso di catastrofe.

Chernobyl ovvero il dominio dell’incertezza

Tuttavia, a 30 anni di distanza, ancora oggi sono più le domande senza risposta rispetto alle certezze sulle conseguenze di quanto accadde nell’allora Unione Sovietica. L’esempio più concreto riguarda l’impossibilità di stabilire un bilancio delle vittime certo ed univoco: si va dai 31 morti causati direttamente al momento dell’esplosione e nelle giornate successive a causa della forte emanazione di radiazioni; alle 4.000 vittime basate sulla stima delle persone coinvolte nei lavori di gestione della crisi (i cosiddetti liquidatori) e colpite da malattie; fino alle 41.000 vittime in prospettiva di tempo causate in maniera più generale dalle varie forme di cancro provocate da radiazioni e contaminazione. Nessun conteggio tiene conto delle vittime indirette, delle persone che ancora oggi, vivendo nelle zone contaminate e consumando prodotti contaminati, si possono ammalare ed eventualmente morire.

L’inquietante constatazione di un evento epocale dal quale tuttavia non siamo ancora riusciti a trarre lezioni certe va applicata anche all’ambito prettamente tecnologico, come drammaticamente dimostrato dall’incidente di Fukushima del 2011. I tecnici giapponesi hanno vissuto per decenni nella convinzione che “quel che accadde a Chernobyl non potrà mai verificarsi in una centrale giapponese”. Fukushima ha dimostrato in maniera inequivocabile il contrario e che ogni incidente nucleare ci pone di fronte all’imponderabile: quel che è accaduto a Fukushima non ha avuto nulla a che vedere con la dinamica dell’incidente di Chernobyl. Eppure i due casi hanno in comune il fatto che non era stato ritenuto possibile ciò che poi invece è accaduto.

Se la letteratura giunge a conclusioni più plausibili rispetto alla tecnica

Da questo punto di vista si deve constatare che la sola opera che veramente abbia fatto tesoro delle conseguenze del disastro avvenuto a Prip’jat’ è un’opera letteraria. “La preghiera per Chernobyl: cronache dal futuro” della bielorussa Svetlana Aleksievic, Premio Nobel per la Letteratura nel 2015, ha fornito un archivio di inestimabile valore non solo letterario ma storico, sociologico, antropologico sulla “nuova umanità” plasmata, partorita dall’incidente nucleare.

Il 15 di Aprile, partendo proprio dall’opera di Aleksievic come punto di ispirazione, 13 esperti di Chernobyl si sono riuniti all’Inalco di Parigi, l’Istituto Nazionale per le Lingue e le Culture Orientali, per fare il punto della situazione a 30 anni dai fatti. Tutti i partecipanti alla conferenza, storici, specialisti di cultura ucraina, bielorussa, antropologi, sociologi, filosofi, hanno in comune almeno due decenni di esperienza sul campo.

Assieme a loro 3 sopravvissuti, Nadejda Kutepova, Natalia Manzurova e Oleg Veklenko, la cui testimonianza ha rappresentato la parte centrale della giornata di interventi. Tra le partecipanti c‘è la Professoressa Oksana Pashlovska, ucraina d’origine, che insegna all’Università La Sapienza, Roma. A 30 anni di distanza, siamo in grado di stabilire chi furono i responsabili di Chernobyl?

“Il responsabile di Chernobyl è il sistema sovietico” dice Pashlovka “uno dei sitemi totalitari che maggiormente ha prodotto vittime, sopprusi, umiliazione dell’essere umano. E il fatto che non venga riconosciuta questa responsabilità è un elemento assolutamente essenziale che impedisce anche alle società degli ex-Paesi sovietici di andare avanti. Si può dire che in buona parte la società sovietica sia crollata a causa di Chernobyl perchè è stata la prima volta che la popolazione, di fronte a questa morte imposta, una morte assolutamente violenta nella sua invisibilità, si è ribellata per la disperazione. È stato un tale sopruso che la gente ha cominciato a protestare in massa. E in gran parte questo ha prodotto il crollo dell’Unione Sovietica, anche se naturalmente era già maturato nel tempo” spiega Pashlovksa.

Ma se l’incidente in sè è il prodotto di numerosi elementi, tra i quali le condizioni tecniche in cui era operata la centrale, la gestione della crisi fu un fatto interamente imputabile alle autorità sovietiche. “Il silenzio nelle prime due settimane successive all’incidente di Chernobyl” dice ancora la Professoressa Pashlovksa “è stato un ulteriore crimine nel crimine. Non dimentichiamo che era il momento della cosiddetta prestroika, l’Occidente plaudeva Gorbačëv come grande riformatore, ma Gorbačëv era soltanto leggermente migliore rispetto al resto del potere sovietico o comunque è stato costretto ad essere tale. Non dobbiamo illuderci da questo punto di vita, perchè praticamente per due settimane la gente è stata costretta a riversarsi per le strade, a festeggiare il 1 maggio. In pratica si è ripetuto lo stesso meccanismo della creazione dell’immagine fasulla della storia per cui tutti sono allegri, tutti sono gioiosi, le mamme spingono le carrozzine, la gente deve prendere il sole. Sotto l’effetto ormai evidente delle radiazioni”.

Come vivono le persone nei territori contaminati a 30 anni dall’incidente?

Abbiamo posto questa domanda a Galina Ackerman, ricercatrice all’Università di Caen, scrittrice e responsabile scientifica per l’organizzazione della conferenza all’Inalco: “Ancora oggi c‘è una popolazione che vive nelle zone contaminate per il semplice fatto che non si possono evacuare 8 milioni di persone” spiega Ackerman. “Ma in effetti, anche nella famigerata zona di esclusione dei 30 km di raggio attorno alla centrale, ci sono delle aree che in linea di principio sarebbero abitabili. Il problema è che per fornire delle condizioni di vita accettabili dal punto di vista medico sanitario in quelle zone ci vorrebbero investimenti enormi. La popolazione dovrebbe avere risorse a sufficienza per rifornirsi e comprare prodotti che vengano dall’esterno delle zone contaminate. Quindi è un problema che, se lo si vuole affrontare seriamente, richiederebbe investimenti assolutamente colossali. E mai nessuno ha immaginato di fare tali investimenti” conclude Ackerman.

Qual è la situazione medico sanitaria da lei constatata nelle zone contaminate? “La situazione medica è pessima, sinceramente. Ci sono solo delle piccole cliniche di campagna che, a parte un po’ di aspirina e delle siringhe con medicinali da usare in caso di crisi cardiaca, non hanno assolutamente nulla” spiega Ackerman. “Senza contare le terribili condizioni delle strade, se si deve trasportare un malato è altissimo il rischio che muoia durante lo spostamento. E soprattutto per la cura del cancro non c‘è assolutamente nulla. Le popolazioni locali nella stragrande maggioranza dei casi sono semplicemente abbandonate a sè stesse”.

Il mito della Natura che riconquista Chernobyl: cosa significa?

“Ho potuto constatare di persona” racconta Galina Ackerman “quanto sia evidente la proliferazione di animali, ad esempio i cinghiali, nelle zone in cui l’uomo è ancora e in parte presente, fatto che costringe a delle battute di caccia per abbattere un certo numero di esemplari. Ma questo non significa proprio nulla. La Natura elimina le specie malate, crea l’infertilità negli individui i cui cromosomi sono danneggiati e, in fin dei conti, in assenza degli esseri umani è normale che si moltiplichino gli animali. Ma quello che non sappiamo affatto è quante lepri o quante volpi o quanti lupi non sono nati oppure si sono ammalati a causa delle radiazioni. E purtroppo lo stesso vale per gli uomini”.

Frédérick Lemarchand è sociologo all’Università di Caen. Ha fatto parte di una spedizione scientifica a Chernobyl per la prima volta 20 anni fa e da allora non ha mai smesso di occuparsi di questa tematica, rilanciata dall’incidente di Fukushima, dove è stato già 3 volte. “Dopo Chernobyl” racconta “non possiamo più guardare serenamente il piatto in cui mangiamo, il nostro giardino oppure il bosco. Allo stesso tempo tutto resta invariato rispetto al periodo prima dell’incidente, fisicamente a prima vista le cose non sono cambiate” dice. “Siamo di fronte a un fenomeno di schizzofrenia, da un lato una contaminazione che non vediamo ma che c‘è, effetti che ci saranno ma dilazionati nel tempo e uno stato delle cose che pare immutato. E la gente si chiede: perché avete vietato l’ingresso nella zona, perché il filo spinato, perché ci hanno trasferiti? Potremmo vivere qui e vivere bene”.

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Oksana Pashlovksa fa un’ultima, amara constatazione sulle condizioni in cui versano le aree più colpite dalle radiazioni: “È assolutamente simbolico” dice “che la gente che torna, torna una volta all’anno per le vacanze di Pasqua. E dove torna? La gente viva torna nei cimiteri, e i cimiteri sono l’unica cosa viva che rimane”.

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