Perché il Libano è al verde e il cambio di regime è difficile

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Di Sergio Cantone
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Perché il Libano è al verde e il cambio di regime è difficile. La piazza si scalda, tra interessi confliggenti sauditi e iraniani

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Le casse libanesi sono al verde e la folla scende in piazza contro una classe dirigente considerata corrotta. Nonostante il governo abbia deciso di eliminare le tasse più impopolari, come quella sulle chiamate whatsapp, la protesta non si placa e sembra ormai cercare un vero e proprio cambio di regime. E il primo ministro sunnita, Saad al Hariri, si inchina ai dimostranti e proclama in diretta televisiva:

"Queste proposte non sono un baratto, non servono a chiedervi di fermare le proteste o di esprimere rabbia, questo è qualcosa che voi scegliete. E non vi imponiamo nessuna scadenza, non permetterò a nessuno di minacciarvi o di intimidirvi" per poi aggiungere: "avete messo l'identità nazionale libanese al di sopra delle divisioni settarie e religiose e questa è la più grande vittoria nazionale".

Quello che nel giro di tre decenni fu il forziere degli sceicchi, conosciuto come come la Svizzera del Medioriente, e, nel contempo, una polveriera etno-religiosa come i Balcani, con una sanguinosa guerra civile tra il 1975 e il 1989, affonda ora nel debito pubblico. Dopo una relativa stabilità politica ed economica durata sostanzialmente quasi trent'anni, ora le tensioni sembrano toranre a minacciare il Paese dei cedri. I giovani libanesi pensano che abbattere il regime possa solo portare migliorare la loro situazione. "Non abbandoneremo le strade, non crederemo nemmeno a un quarto delle parole di quello che ha detto (il primo ministro) Ora diciamo che il regime deve cadere. Nessuno gli crede più" dice una ragazza in piazza a Beirut, mentre un altro suo coetaneo incalza: "Menzogne, menzogne e menzogne! Non farà nulla. Se fossero state rose sarebbero già fiorite. Hanno governato per anni, se avessero voluto fare qualcosa l'avrebbero fatta".

Ma buttar giù il regime libanese è assai complesso e pericoloso per la stabilità dell'intero Medioriente. Le istituzioni sono volutamente articolate, per rappresentare equamente tutti i gruppi etnici e quelli religiosi. Mentre il vicinato è alquanto rumoroso: Siria e Israele. Devono convivere inoltre in Libano interessi sauditi, rappresentati da una classe dirigente sunnita, quelli cristiani che una nel presidente della repubblica Michel Aoun un esponente di rilievo e quelli sciiti, raccolti attorno agli Hezbollah, un vero e proprio stato nello stato, dotato di una sua forza militare indipendente e considerata dallo Stato ebraico un nemico alla stregua del suo protettore, l'Iran.

E proprio da questa configurazione sorgono i tormenti delle finanze pubbliche libanesi, all'origine di questa rivolta del pane 2.0. In gioco c'è la sostenibiltà del debito, al 150% del PIL, con un'esposizione estera quasi totale. I collettori che potrebbero sostenere la situazione deficitaria sono l'Arabia saudita, storica sostenitrice dalla famiglia Hariri, che però ha ridotto i finanziamenti preoccupata dalla crescente influenza degli Hezbollah filo-iraniani sul governo di Beirut. Mentre l'Iran, tradizionale sostenitore degli sciiti, versa in ristrettezze a causa della guerra in Siria e delle sanzioni.

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