Collaboratori e testimoni di giustizia: un sistema con molte falle (soprattutto per i familiari)

Collaboratori e testimoni di giustizia: un sistema con molte falle (soprattutto per i familiari)
Diritti d'autore Foto del processo a Gaspare Spatuzza del 2009. Copyright: Giuseppe Cacace - AFP
Di Simona Zecchi
Condividi questo articoloCommenti
Condividi questo articoloClose Button

Luigi Bonaventura, collaboratore di giustizia da oltre 12 anni: "Pentito è un modo elegante per chiamarci infami e questa cosa ricade soprattutto sui nostri familiari che restano schiacciati fra l'incudine e il martello"

PUBBLICITÀ

Nell'ultima relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia, l'allarme risuona chiaro ed è riportato nero su bianco: mafia, 'ndrangheta e camorra operano sempre più "secondo modelli imprenditoriali variabili", che vengono calibrati su ogni realtà economica in cui le organizzazioni si infiltrano e che colpiscono "indistintamente" tutti i settori economici.

Un modus operandi che funziona in Italia e all'estero, dove ormai le cosche - la 'ndrangheta soprattutto, ma anche Cosa nostra - hanno impiantato strutture permanenti. La Dia sottolinea il ruolo delle mafie come sempre più permanente al Nord. Sin dagli anni '70 del 900 in verità si sono radicate nel settentrione. Non sono solo le organizzazioni criminali autoctone a preoccupare: la mafia nigeriana, ad esempio, è ormai una realtà pericolosa tanto quanto alcuni clan, poiché ha una rete "in costante contatto con la madre Patria" che è necessario monitorare, anche perché in alcune zone, come in Sicilia, "ha trovato un proprio spazio, con il sostanziale placet di Cosa nostra".

Vedi anche ➡️ L'intervista al Direttore della Dia Giuseppe Governale

In parallelo e in contrapposizione rispetto all'esercito delle mafie camminano altri due eserciti: quello dei collaboratoridi giustizia (inclusi i collaboratori nigeriani, che hanno fornito alle autorità - si legge nella relazione - un valido contributo per comprendere un fenomeno relativamente nuovo nel suo insieme) e quello dei testimoni di giustizia.

Al fianco di entrambi silenziosamente, ci sono i familiari, in numero naturalmente maggiore tanto dei collaboratori quanto dei testimoni stessi. Tutti sono inclusi nel programma di protezione la cui legge è stata modificata più volte, l’ultima con un intervento bipartisan nel febbraio 2018. Il sistema di protezione di collaboratori e testimoni è gestito da una commissione del Viminale, presieduta da Luigi Gaetti (M5S), ex vice presidente della commissione antimafia e ora sottosegretario al ministero dell’Interno.

In Italia sono oltre 6mila le persone nel programma di protezione (dati fermi al 2016)

Fino al 2017 era disponibile, perché inviata annualmente al Parlamento e quindi poi resa pubblica nel sito del Ministero dell'Interno, la relazione al Parlamento sulle speciali misure di protezione dei testimoni e collaboratori di giustizia.

I dati della relazione risalgono solo al 30 giugno 2016 e sono dunque da prendere con le molle perché, negli anni, sono necessariamente cambiati. Abbiamo chiesto alle sedi opportune di fornirci nuovi dati e, se disponibile la nuova relazione (2019), ma senza successo. Il Viminale non produce più questo tipo di servizio.

Ecco cosa dicono i numeri:

  • Sono oltre 6mila le persone sotto protezione;
  • Collaboratori protetti: 1,277 (di cui 63 donne);
  • Familiari dei collaboratori: 4915;
  • Testimoni protetti 78 (di cui 26 donne);
  • Familiari dei testimoni: 255;

Secondo la deputata Piera Aiello, i testimoni si sarebbero ridotti ad appena 51 unità a fine 2018: una riduzione "intepretata come sintomo della sfiducia nei confronti dello Stato di potenziali testimoni di giustizia".

Una tabella a parte riguarda la fascia dei minori familiari fino ai 18 anni (popolazione totale 2.123)

  • 2036 i familiari minori dei collaboratori;
  • 86 i familiari minori dei testimoni;
  • Esiste poi 1 unico testimone diretto fra i minori di questa fascia;

Qui invece è possibile monitorare la situazione dei beni sequestrati.

Assistenza assente per i familiari, nessun programma di reinserimento lavorativo, burocrazia: i problemi della "mancanza d'identità"

A parlarci delle falle del sistema e del prezzo alto che pagano, soprattutto i familiari, è l'ex boss Luigi Bonaventura che da oltre 12 anni collabora con diverse procure, ritenuto da esse credibile e affidabile, Bonaventira ha contribuito in modo decisivo allo smantellamento di diverse operazioni criminali della 'ndrangheta. Bonaventura ha anche terminato di scontare una pena scattata nel 2014 e scaturita dalle operazioni "Eracles" e "Perseus".

Leggi anche ➡️ una precedente intervista dell'autrice a Bonaventura "Chi tocca le trattative brucia"

"Collaboro formalmente dal 2007 ma mi sono dissociato nel 2005, prendendo contatto con la magistratura e palesandole la mia volontà di collaborare con la giustizia. Non avevo ancora subito incriminazioni per reati gravi sino ad allora. Per me si è trattata sin da subito una conversione vera e propria, prima che di una collaborazione. Sono 12 anni che credo nella giustizia e continuo a crederci pur essendo ormai uscito dal programma di protezione". In seguito all’intervento del Consiglio di Stato, della magistratura e della DDA di Catanzaro, i familiari di Bonaventura sono stati messi sotto protezione, ma non esiste vera assistenza per loro, lamenta l'ex collaboratore - e manca l’aiuto logistico per cercare d’inserirsi nella società. Soprattutto non esiste vera protezione fisica per la famiglia.

A Bonaventura abbiamo chiesto qual è per lui e per i suoi familiari (ma è chiaramente un problema di tutti i familiari dei collaboratori) il significato della parolaidentità.

"Per me la parola identità è un diretto riferimento alla questione pratica, ai documenti stessi di identità che - almeno per quanto mi riguarda, e contrariamente a quanto prevede il contratto di collaborazione - sono sempre mancati", cioè non esistono per la famiglia Bonaventura documenti ufficiali di copertura. Gli effetti di questa "mancanza di identità", per Bonaventura e la sua famiglia, sono diversi: "titoli di studio che non puoi dimostrare, non puoi trovare lavoro quindi per anni resti senza contributi, è difficile districarsi poi nei meandri burocratici per ottenere l'ok alle visite mediche".

"Pentito è un modo elegante per chiamarci infami e questa cosa ricade soprattutto sui nostri familiari che restano schiacciati fra l'incudine e il martello"
Luigi Bonaventura
Collaboratore di giustizia da oltre 12 anni

"Mi volevano trasferire in posti che sapevo pericolosi"

"Sono stato esautorato dal programma di protezione 4 anni fa - continua l'ex collaboratore - anche se avevo prima chiesto io di non rinnovarlo per 3 anni e anche se, come ho detto, continuo tuttora a collaborare. Il motivo addotto per questa decisione sono state le interviste non autorizzate (quando ormai il contratto in realtà era scaduto). Altri motivi addotti sono stati il mio rifiuto di trasferirmi nei posti dal servizio deputati. In realtà mi rifiutavo di andare in posti che sapevo essere pericolosi. Io infatti denunciavo i pericoli e i problemi del programma di protezione". Quindi il problema è specifico: essere allocati in posti che sono un pericolo per i veri collaboratori di giustizia è il concetto contrario alla funzione del servizio di protezione.

Gli effetti di questi pericoli sono evidenti tutt'oggi come nel caso dell'omicidio del testimone di giustizia Marcello Bruzzese, fratello del collaboratore di giustizia Girolamo, ex braccio destro di Teodoro Crea a capo dell’omonima ‘ndrina reggina. È stato ammazzato a Pesaro nel garage sotto casa, nel dicembre del 2018. Era già scampato a un agguato nel 1995 a Rizziconi, in provincia di Reggio Calabria, in cui morirono il padre Domenico e un cognato. Si tratta del primo tra le persone inserite nel programma, e quindi "protetto", ad essere stato ammazzato per una vendetta di 'ndrangheta.

PUBBLICITÀ

Un altro caso invece riguarda l'omicidio a Chiavari nell'aprile di quest'anno di un ex collaboratore di giustizia, Orazio Pino, siciliano, il cui cadavere è stato rinvenuto fuori dall'auto nel parcheggio di un supermercato del centro del genovese. Per l'omicidio è stato arrestato il 28 giugno scorso un imprenditore edile. Ma le cause dell'agguato sono tuttora avvolte nel mistero e spesso si tenta di allontanarle, nelle ricostruzioni ufficiali, dalla questione 'ndrangheta. Anche Pino era sprovvisto di un nome di copertura, come si legge nella ultima intervista rialsciata a Estreme Conseguenze.

E Bonaventura - ex collaboratore (che ancora collabora) - spiega:

"Non sono mai stato davvero protetto, [la protezione] esiste solo sulla carta: non c'è volontà (e non c'è mai stata) politica di voler davvero fare del servizio centrale di protezione uno strumento forte né la volontà di risolvere i problemi".

Stesso concetto ce lo ha riferito la testimone Piera Aiello da noi intervistata:

"La piu grossa falla nel sistema di protezione è proprio la sicurezza: sono burocrati che portano avanti decisioni della Commissione centrale, ma per quanto riguarda la sicurezza non stanno facendo nulla. Il sistema è vecchio. La Commissione sta a Roma, principalmente al servizio centrale di protezione, un organo formato da Polizia, Carabinieri e Finanza. Spesso molti di loro ci confondono tra testimoni e collaboratori, non conoscono neanche la differenza: come si fa a farsi gestire da queste persone?"

PUBBLICITÀ

Il problema dei falsi pentiti

Fra il 2011 e il 2012, Bonaventura aveva denunciato anche la questione dei falsi pentiti (l'esempio storico per antonomasia è certamente Vincenzo Scarantino, usato per sviare le indagini sulla morte di Borsellino, ma soltanto pochi altri i casi che sono stati resi pubblici; alcuni di essi sono coinvolti in un mistero ancora tutto da chiarire nella vicenda stessa della strage di Via d'Amelio:

"Abbiamo visto come almeno in passato i falsi pentiti siano stati per lo più creati dallo Stato, è inutile nasconderci su questo", ha detto Bonaventura che sottolinea: "Si è fatto dello strumento prezioso creato dal giudice Falcone carne da macello".

Altra cosa che accomuna le falle per i testimoni e per i collaboratori è la mancanza di supporto psicologico: per Bonaventura non è mai esistito ("al solito esiste solo sulla carta, abbiamo necessità di essere rieducati e di ottenere supporto psicologico per noi e i nostri familiari"). La Aiello conferma:

"All’interno manca la figura dello psicologo, non ci sono persone specializzate o che abbiano a cuore il problema. Molti di loro pensano che siamo come un cancro, che non si estirpa mai. Invece siamo una risorsa, dobbiamo essere tutelati, accarezzati; a volte basta solo una parola di conforto. Ora invece i funzionari fanno una settimana di corso per essere abilitati: ma cosa possono mai capire di questo mondo in una settimana?"

Bonaventura ha fondato cinque anni fa il Comitato Sostenitori dei Collaboratori di Giustizia che fra settembre e ottobre diverrà una ONG, presidente Valeria Sgarlato, e che "contribuirà a valorizzare la lotta alla mafia e fare riconoscere i diritti dei familiari, persone che non hanno nessuna colpa: sono gli eroi nascosti, il sostegno vero sono loro perché pagano il prezzo più alto".

PUBBLICITÀ

"Da una parte le mafie ci considerano degli infami, dall'altra parte la società civile ci considera sempre dei mafiosi. La parola pentito è un modo elegante per chiamarci infami e questa cosa ricade sui nostri soprattutto sui nostri familiari."

È l' ultima cosa che ci riferisce Luigi, e rappresenta quasi la sintesi di tutto.

Condividi questo articoloCommenti

Notizie correlate

Caso Piera Aiello, parola all'accusa: non è questione di identità ma di regolarità dei documenti

Operazione Libro Nero: 17 arresti a Reggio Calabria della cosca Libri. Anche due politici fermati

"Il suo nome non esiste" - La testimone anti-mafia Piera Aiello può essere eletta deputata?