Rohingya: il "silenzio" del Nobel per la pace Aung San Suu Kyi

Secondo giorno di udienze alla Corte penale internazionale dell'Aia, dove mercoledì la leader birmana Aung San Suu Kyi ha difeso il suo Paese dalle accuse di genocidio, nei confronti della minoranza musulmana Rohingya. Il Consigliere di Stato - una volta celebrata come un'icona nella lotta contro la dittatura birmana e oggi ampiamente contestata per non aver preso posizione - aveva sostenuto che gli interventi dell'esercito birmano fossero stati una risposta agli attacchi compiuti dai ribelli Rohingya, ma non aveva escluso che, in alcuni casi, ci fossero state violazioni del diritto internazionale umanitario.
Il Gambia, sostenuto dai 57 membri dell'Organizzazione della cooperazione islamica (OIC), denuncia oggi come ieri il "silenzio" del Premio Nobel per la pace: "Il suo silenzio ha detto molto più delle sue parole", ha dichiarato uno degli avvocati del Paese africano.
Non ci stanno neanche i Rohingya, fuggiti in Bangladesh due anni fa, a causa delle persecuzioni subite. "Suu Kyi è stata mandata lì a raccontare bugie", dichiara un Rohingya. "L'esercito e la polizia del Myanmar ci hanno torturato. Ed è andata alla Corte penale internazionale solo per salvare l'esercito". Un pensiero condiviso nel campo profughi. "Quello che sta facendo per salvare l'esercito del Myanmar, la polizia e i funzionari governativi è totalmente sbagliato, inaccettabile", concorda un altro uomo. "Lei è un premio Nobel. Non la farà franca con le bugie".
Dall'agosto 2017, circa 740.000 Rohingya sono scappati dallo stato di Rakhine, verso il vicino Bangladesh, per sfuggire agli abusi dell'esercito birmano e delle milizie buddiste. Migliaia di persone sono morte.