La rivolta in Ecuador insiste contro il caro-carburante
"El pueblo unido, jamás será vencido!"
Antichi slogan di lotta popolare tornano a risuonare nelle strade dell'Ecuador dopo l'esperienza liberista.
"È indefinito, perché finché il presidente non si pronuncerà resteremo qui fino alle estreme conseguenze" dice un manifestante.
Quinto giorno di protesta indigena. I manifestanti paralizzano il paese e bloccano l'arteria viaria vitale che porta a a Quito.
Chiedono che il governo rinunci ai tagli ai sussidi per il carburante, misura restrittiva richiesta dal Fondo monetario internazionale, per dare stabilità finanziaria al paese.
E prima che le ricette dell'Fmi risolvano i problemi economici, come è noto, migliaia di ecuadoriani si portano avanti col lavoro mettendo l'esecutivo contro lo corde.
Scontri, molotov e tumulti hanno portato all'arresto di quasi cinquecento persone, ma costretto il presidente Moreno, che, ironia dell'onomastica, di nome fa Lenín, a trasferire l'amministrazione dalla capitale, alla più quieta Guayaquil. Ha decretato lo stato d'emergenza, attaccando quelli, che a suo dire, sono i responsabili dei tumulti: "sono loro i corrotti che hanno sentito i passi della giustizia metterli alle corde. Hanno ordito questo tentativo di colpo di stato. Usano e strumentalizzano alcuni gruppi indigeni. Il satrapo Maduro e Correa hanno attivato questo piano di destabilizzazione".
Il presidente attacca il suo ex alleato e predecessore Rafael Correa, accusato di corruzione. Correa tra il 2007 e il 2017, decennio in cui fu capo dello stato, allineò l'Ecuador all'asse bolivariano e diede rifugio a Julian Assange nell'ambasciata ecuadoriana di Londra.