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Perché i combattimenti tra Israele e Iran potrebbero riprendere in qualsiasi momento

This satellite image provided by Maxar Technologies shows overview of Fordo enrichment facility in Iran, on June 29, 2025. (Maxar Technologies via AP)
This satellite image provided by Maxar Technologies shows overview of Fordo enrichment facility in Iran, on June 29, 2025. (Maxar Technologies via AP) Diritti d'autore  AP/Satellite image ©2025 Maxar Technologies
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Di Sergio Cantone
Pubblicato il Ultimo aggiornamento
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La Guerra dei dodici giorni non ha risolto la questione nucleare in Medio Oriente. L'Iran diffida sia degli Usa che dell'Agenzia atomica dell'ONU. Anche altre potenze regionali come Arabia Saudita e Turchia potrebbero essere tentate dall'opzione strategica nucleare

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Dopo la cosiddetta guerra dei dodici giorni tra israele e Iran grandi restano l’ambiguità e i dubbi su di un futuro accordo per il nucleare iraniano e la tenuta della tregua.

“La fine delle minacce militari statunitensi è una condizione preliminare per la ripresa delle trattative tra Teheran e Washington” ha avvertito il capo della diplomazia iraniana Abbas Araghchi.

Mentre Rafael Grossi, direttore dell’agenzia atomica dell’Onu, mette in guardia la comunità internazionale dicendo che “l’Iran sarebbe in grado di riprendere l’arricchimento dell’uranio in qualche settimana”.

Per il regime di Teheran, la fiducia nei confronti dell’agenzia nucleare della Nazioni Unite si è ormai spezzata come ha riferito in una telefonata il presidente della repubblica islamica, Masud Pezeshkian al presidente francese Emmanuel Macron.

Il capo dello stato iraniano ha criticato Rafael Grossi per non avere condannato le incursioni aeree israelo-statunitensi contro i siti nucleari e alcuni obiettivi militari convenzionali dell’Iran. Attacchi perpetrati “in violazione della Carta delle Nazioni Unite e del trattato di non proliferazione nucleare (Tpn)” ha detto Pezeshkian.  

Immagini satellitari risalenti a domenica 29 giugno (presumibilmente) mostrano attività al sito atomico di Fordow, uno dei principali centri di arricchimento dell’uranio. Le sequenze mostrano  delle scavatrici e delle persone (probabilmente tecnici) al lavoro attorno ai grandi bocchettoni degli impianti di aerazione del sito sotterraneo.

Le foto sono state scattate dai satelliti di Maxar Technologies (una società privata Usa) che nel 2022 rilevarono il dispiegamento inconsueto delle truppe russe lungo i confini con l’Ucraina.

Il sito di Fordow è stato colpito dalle bombe di profondità (Mop) sganciate da bombardieri B2 della US Air Force.

Proprio qualche ora prima le autorità di Teheran avevano negato l’accesso degli osservatori Onu agli impianti, “come pensate che possiamo garantire la loro sicurezza se le nostre strutture pacifiche sono state bersagliate fino a qualche giorno fa?” ha dichiarato non senza una certa ironia un portavoce della diplomazia iraniana.

Effetti poco chiari della Guerra dei dodici giorni

Sebbene israeliani e statunitensi lo considerino “breve”, per il gruppo dirigente di Teheran il conflitto rimane sostanzialmente irrisolto, nonostante il cessate il fuoco.

È bene ricordare che negli attacchi hanno perso la vita 935 iraniani, tra i quali qualche centinaio di civili.

Mentre per il premier israeliano Benyamin Netanyahu, dopo la guerra dei dodici giorni ci sono “ampie opportunità regionali” di stabilizzazione, le circostanze oggettive delineano prospettive meno ottimiste.    

Secondo Raffaele Marchetti, direttore del Centro studi internazionali e strategici dell’università Luiss di Roma, la dirigenza di Teheran si oppone al reale obiettivo strategico finale di Israele e Usa, che non è solo quello di un Iran denuclearizzato.

Netanyahu presenta la questione dell’annientamento del programma atomico iraniano come una questione di sicurezza nazionale israeliana. “Certo! Però fondamentalmente, per uno studioso di relazioni internazionali, è invece un tentativo di rafforzare e consolidare l'egemonia regionale di Israele” dice Marchetti: “Egemonia significa che tu sei la potenza senza rivali nel contesto internazionale e quindi tutti gli altri Paesi più o meno si piegano alla tua volontà”.

L’obiettivo strategico di Teheran sarebbe invece l’equilibrio regionale di potenza basato sulla deterrenza nucleare reciproca.

“Non è affatto sorprendente che l'Iran si sia incamminato in un processo di sviluppo nucleare che però ecco su questo dobbiamo stare un pochino attenti perché almeno formalmente. L'Iran, a differenza di Israele, ha sempre aderito al trattato di non proliferazione nucleare”, dice Marchetti.

È difficile quindi che si raggiunga un accordo tra le parti senza che una delle due ceda.

Ecco perché solo la caduta del regime degli ayatollah potrebbe risolvere la questione a lungo termine, calcolano Israele e Usa.

L'Iran teme l'egemonia regionale di Israele

Israele, non avendo riconosciuto ufficialmente di essere in possesso di armi atomiche non aderisce al Trattato di non proliferazione nucleare, al contrario dell’Iran, che però lo firmò nel 1970, all’epoca dello scià, Mohammad Reza Pahalavi.

A quei tempi Teheran era uno dei tre pilastri, assieme a Israele e Turchia, degli equilibri filo-occidentali e anti-sovietici nella regione oggi chiamata “Medio Oriente allargato”: comprendente anche Caucaso e Asia Centrale.

In quegli anni, prima della rivoluzione clericale sciita del 1979, Ankara, Teheran e Tel Aviv condividevano cordiali relazioni politiche e militari, basate su interessi strategici convergenti.

Oggi l’Iran scrive nella propria costituzione la necessità di distruggere Israele.

Né Israele, né l’Iran  hanno dottrine nucleari militari ufficiali, perché il primo non riconosce di avere un arsenale nucleare, mentre il secondo insiste nell’affermare di voler perseguire un programma atomico esclusivamente civile.

Israele non ammette e non nega di avere armi atomiche, è la cosiddetta dottrina della deliberata ambiguità strategica: uno stato mantiene i potenziali avversari nell’incertezza sulla sua reazione in caso di conflitto.     

Secondo stime di paesi terzi, organizzazioni internazionali e membri della comunità scientifica Israele sarebbe in possesso di un numero indefinito di testate nucleari, oscillante tra le 90 e le 400.

L’opzione nucleare israeliana risale al 1949, un anno dopo la sua fondazione. Per l’allora classe dirigente raccolta attorno al primo ministro David Ben Gurion la bomba atomica era l’unica soluzione per compensare la mancanza di profondità strategica di Israele, circondato da Paesi confinanti tutti, a quei tempi, apertamente ostili.

Gli Usa non appoggiarono quella scelta strategica. Sarà la Francia della Quarta Repubblica, e del governo socialista (SFIO) di Guy Mollet a collaborare con lo stato appena fondato in Medio Oriente, fornendo il supporto tecnologico necessario.

Il Generale de Gaulle rallenterà a partire dal 1961 la cooperazione francese con Israele in materia nucleare, fino ad arrivare alla completa interruzione dopo la Guerra dei sei giorni nel 1967.   

Anche se non c’è una dottrina ufficiale per quanto riguarda l’impiego della forza atomica, in realtà per Israele l’arma nucleare “è l’arma estrema. Siamo nella deterrenza totale, non venne utilizzata neanche nel 1973 (quando Israele rischiò il collasso militare di fronte all’offensiva siriana ed egiziana) nella Guerra del Kippur”, dice David Rigoulet-Roze, studioso di Medio Oriente all’Iris, l’Istituto di relazioni internazionali e strategiche, basato a Parigi.  

Il sistema di difesa israeliano intercetta i missili lanciati dall'Iran su Tel Aviv. !9 giugno 2025
Il sistema di difesa israeliano intercetta i missili lanciati dall'Iran su Tel Aviv. !9 giugno 2025 Leo Correa/Copyright 2025 The AP All rights reserved

Il nucleare israeliano e la ricerca dell'ambiguità strategica

Ecco perché malgrado la deliberata ambiguità strategica, una cosa è certa, “secondo la dottrina, vecchia di decenni, dell’ex premier conservatore Menachem Begin, lo Stato ebraico non tollera, fino all’uso della forza, l’esistenza di altre potenze nucleari nella regione.”

Infatti nel 1981 aerei da combattimenti israeliani attaccarono e distrussero il reattore nucleare iracheno di Osirak ufficialmente destinato all’impiego civile, sviluppato con il supporto della Francia del presidente Valéry Giscard d’Estaing e del primo ministro Jaques Chirac.

Per i servizi di sicurezza Israeliani l’azione era giustificata perché il reattore avrebbe potuto potenzialmente essere convertito alla produzione di plutonio.

Nel 2007 i jet israeliani colpirono anche nei dintorni di Der ez-Zor, in Siria, dove, secondo il Mossad, il regime di Assad stava costruendo un reattore nucleare con l’assistenza della Corea del Nord.  

Oggi, i rapporti di forza e quelli politico-diplomatici sono mutati a favore di Israele: Egitto e Giordania hanno riconosciuto lo Stato ebraico, la Siria (di fatto smembrata) non è più in grado di nuocere e il Libano non costituisce certamente una minaccia esistenziale. Mentre, l’Iraq di Saddam Hussein non è ormai che un vago ricordo.   

Tuttavia, la presenza di una forza nucleare strategica iraniana romperebbe gli equilibri della non proliferazione in una regione notoriamente instabile: “il principe saudita Bin Salman ha detto che nel caso di una forza nucleare iraniana anche l’Arabia Saudita perseguirebbe l’atomo militare, e poi ci sarebbe un effetto domino potenziale con la Turchia e l’Egitto che si sentirebbe in dovere di dotarsi di armi atomiche”, conclude Rigoulet-Roze.

"Ecco cosa si voleva evitare con l’accordo  nucleare iraniano firmato nel 2015 da Ue, Regno Unito, Germania, Francia, Usa, Cina e Russia. E denunciato dal presidente Trump nel 2018”.

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