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Cosa succede se l'Iran chiude lo Stretto di Hormuz? Ecco un test critico della capacità dell'Opec+ di contenere una crisi petrolifera

Un giacimento di petrolio nel deserto di Sakhir, Bahrain - 20 dicembre 2015.
Un giacimento di petrolio nel deserto di Sakhir, Bahrain - 20 dicembre 2015. Diritti d'autore  Hasan Jamali/ AP
Diritti d'autore Hasan Jamali/ AP
Di Clara Nabaa & يورونيوز
Pubblicato il
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Le tensioni tra Iran e Israele spingono i prezzi del petrolio alle stelle. Lo Stretto di Hormuz sotto osservazione: rischio interruzione export. I margini dell’Opec+ per reagire sono limitati

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I prezzi del petrolio hanno aperto la settimana all’insegna della volatilità dopo un balzo del 7 per cento registrato venerdì, in seguito a uno scambio di colpi tra Iran e Israele. Le crescenti tensioni in Medio Oriente stanno alimentando i timori di un possibile allargamento del conflitto nella regione, con conseguenze gravi per l’approvvigionamento energetico globale. Gli investitori temono un’interruzione significativa delle esportazioni di greggio, in particolare attraverso lo Stretto di Hormuz, una delle rotte più strategiche al mondo per il trasporto di petrolio e gas naturale.

Lo Stretto di Hormuz: punto critico per le forniture globali

Lo Stretto di Hormuz, largo appena 30 miglia nel suo punto più stretto, separa l’Iran dalla penisola omanita di Musandam ed è il passaggio obbligato per le esportazioni energetiche di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iraq, Kuwait, Bahrein e Qatar.

Ogni giorno vi transitano circa 20 milioni di barili di petrolio, equivalenti a un quinto del commercio globale di greggio, oltre a un terzo delle esportazioni mondiali di gas naturale liquefatto (Gnl), secondo i dati dell’Energy Information Administration statunitense.

Una chiusura dello Stretto da parte di Teheran rappresenterebbe un evento dirompente: bloccherebbe non solo le esportazioni iraniane, ma anche quelle di diversi altri Paesi del Golfo. Una tale mossa metterebbe sotto pressione l’intero mercato energetico, che già oggi opera con margini di produzione limitati per far fronte a eventuali emergenze.

Impennata dei prezzi fino a 20 dollari al barile

Secondo Jorge Leon, analista geopolitico di Rystad ed ex funzionario dell’Opec, l’interruzione del traffico petrolifero attraverso lo Stretto di Hormuz, oppure attacchi diretti a infrastrutture energetiche regionali, potrebbero provocare un forte shock sui mercati, con un aumento dei prezzi del petrolio anche di 20 dollari al barile o più in tempi molto rapidi.

In un contesto già teso per via della guerra in Ucraina, dell’inflazione persistente e della transizione energetica in corso, un’escalation nel Golfo Persico rappresenta uno scenario ad alto impatto sistemico.

Una petroliera attraversa lo stretto di Hormuz- Sultanato dell'Oman, 1980
Una petroliera attraversa lo stretto di Hormuz- Sultanato dell'Oman, 1980 Bill Foley/AP

L’Opec+ ha ancora margine di manovra?

Di fronte a un’interruzione delle forniture iraniane, l’Opec+ – il cartello dei produttori di petrolio guidato da Arabia Saudita e Russia – potrebbe trovarsi in grande difficoltà. Secondo analisti sentiti da Reuters, la capacità produttiva di riserva dell’alleanza è estremamente limitata, appena sufficiente a coprire i circa 3,3 milioni di barili al giorno esportati dall’Iran.

L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono gli unici Paesi dell’Opec+ in grado di aumentare rapidamente la produzione. Insieme, potrebbero attivare una capacità aggiuntiva stimata in circa 3,5 milioni di barili al giorno, una cifra che rappresenta praticamente l’intero margine disponibile sul mercato globale.

Gli ostacoli a un aumento della produzione

Tuttavia, anche queste cifre vanno interpretate con cautela. La pandemia di Covid-19 ha portato a tagli drastici negli investimenti nei giacimenti petroliferi, rallentando il potenziale di recupero produttivo. JP Morgan ha sottolineato in una nota che, fatta eccezione per Riad, la maggior parte dei membri dell’Opec sta già producendo al massimo della propria capacità.

L’Arabia Saudita dovrebbe incrementare la sua produzione a oltre 9,5 milioni di barili al giorno a luglio, mantenendo un margine teorico di 2,5 milioni. Tuttavia, il regno ha deciso di sospendere i piani di espansione della capacità produttiva oltre i 12 milioni di barili al giorno, preferendo investire in altri progetti strategici.

Qul Khurais Al-Nafti, a est di Riad, il 28 giugno 2021
Qul Khurais Al-Nafti, a est di Riad, il 28 giugno 2021 Amr Nabil/AP

Anche gli Emirati Arabi Uniti si muovono su un crinale sottile: la loro capacità massima è di circa 4,85 milioni di barili al giorno, ma la produzione effettiva ad aprile si aggirava attorno ai 3,3 milioni, con margini limitati di crescita. Secondo Bnp Paribas, gli EAU potrebbero arrivare a produrre stabilmente tra i 3,5 e i 4 milioni di barili.

Russia e sanzioni: un altro tassello del puzzle energetico globale

La Russia, secondo produttore dell’Opec+, non ha molta flessibilità. JP Morgan stima che Mosca potrà aumentare la produzione solo di circa 250.000 barili al giorno nel breve termine, raggiungendo un massimo teorico di 9,5 milioni di barili. Le sanzioni internazionali, le difficoltà logistiche e i limiti tecnologici stanno rallentando la capacità della Russia di contribuire in modo significativo alla stabilità del mercato.

Inoltre, diversi analisti – tra cui Aldo Spanjer di Bnp Paribas – mettono in dubbio la reale entità delle riserve di produzione dell’Opec+, suggerendo che i numeri diffusi ufficialmente potrebbero essere sovrastimati.

Le recenti tensioni tra Iran e Israele non solo stanno alimentando la paura di un conflitto regionale su larga scala, ma stanno mettendo in luce la fragilità strutturale del mercato petrolifero globale. La dipendenza dallo Stretto di Hormuz e le limitate capacità produttive di riserva rendono il sistema vulnerabile a shock improvvisi. Se la crisi dovesse intensificarsi, il mondo potrebbe trovarsi a fare i conti non solo con l’impennata dei prezzi, ma anche con una reale carenza di forniture.

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