Variante inglese, i ricercatori: "più infettiva, ma non più grave o mortale"

Il nuovo ceppo di coronavirus identificato per la prima volta in Inghilterra è più infettivo ma non più pericoloso dell'originale COVID-19.
A stabilirlo, sciogliendo un'ambiguità che dalla seconda metà del 2020 aveva procurato notti insonni ai responsabili dei sistemi sanitari e agli epidemiologi di mezzo mondo, sono due nuovi studi condotti proprio nel Regno Unito, dove la variante fu sequenziata per la prima volta nello scorso autunno.
I rapporti, pubblicati martedì sulle prestigiose riviste Lancet Infectious Diseases e Lancet Public Health, non hanno trovato alcuna prova che possa ricondurre il ceppo a sintomi peggiori, maggiori tassi di mortalità o a un decorso più lungo nella malattia.
La variante, nota come B.1.1.7, è stata identificata nel Kent (sud-est dell'Inghilterra) lo scorso settembre e ha iniziato a diffondersi a macchia d'olio nel periodo finale dell'anno. È stata associata al massiccio picco di casi di COVID-19 registrato nel Regno Unito a gennaio e ora è stata rilevata in più di 100 altri paesi in tutto il mondo.
I risultati di entrambi gli studi, che coprono il periodo compreso tra settembre e dicembre 2020, contrastano con almeno altri tre che hanno legato la cosiddetta variante Kent a tassi di mortalità più elevati. Gli autori hanno sottolineato la necessità di una ricerca continua sulle nuove varianti di COVID-19, ovunque e in qualunque momento emergano.
Più diffusa tra i giovani e le minoranze etniche
Il primo rapporto è uno studio di sequenziamento del genoma intero che coinvolge i pazienti COVID-19 ammessi all'UCL London Hospital di Londra e al North Middlesex University Hospital tra il 9 novembre e il 20 dicembre 2020.
Questo era un punto critico quando entrambe le varianti originali e B.1.1.7 stavano circolando nella capitale, e prima che il programma di vaccinazione di massa del Regno Unito iniziasse ad entrare a regime.
Gli autori hanno confrontato la gravità della malattia in 143 persone infettate dalla variante originale e 198 dalla B.1.1.7, calcolandone la carica virale, ovvero la quantità di virus nel sangue di una persona infetta.
Stando ai risultati dei loro test, non ci sarebbe alcuna correlazione tra la variante inglese e sintomi peggiori nella malattia da Coronavirus. In totale, il 36% dei pazienti con B.1.1.7. si è ammalato gravemente o è morto, rispetto al 38% di quelli con un ceppo non B.1.1.7.
I ricercatori hanno inoltre evidenziato come i pazienti infettati con la variante inglese tendano ad essere più giovani: il 55 per cento di loro riporta infatti un'età inferiore ai 60 anni rispetto al 40 per cento nell'altra coorte. Le infezioni con la variante si sono verificate anche più frequentemente tra gli appartenenti alle minoranze etniche, rappresentando il 50 per cento dei casi rispetto al 29 per cento per i ceppi non-B.1.1.7.
Gli autori hanno inoltre confermato come il ceppo B.1.1.7 sia probabilmente più infettivo rispetto al patogeno sequenziato a Wuhan. I campioni raccolti tramite tampone dai nasi e dalle gole dei pazienti infettati con la variante inglese evidenziavano infatti una maggiore quantità di virus.
"Uno dei punti di forza del nostro studio - ha detto la ricercatrice Dr Eleni Nastouli, dello University College London Hospitals NHS Foundation Trust e dell'UCL Great Ormond Street Institute of Child Health - è che è stato condotto mentre la B.1.1.7. stava emergendo e diffondendosi in tutta Londra e nel sud dell'Inghilterra. Analizzare la variante prima del picco di ricoveri ospedalieri ci ha dato una finestra di tempo cruciale".
Nessuna prova di sintomi diversi o tassi di reinfezione
Il secondo studio ha utilizzato i dati registrati da 36.920 utenti di un'app di auto-rapporto dei sintomi COVID-19, che nel Regno Unito erano tutti risultati positivi tra il 28 settembre e il 27 dicembre 2020.
Gli autori hanno combinato i loro risultati e le segnalazioni dei sintomi con i dati di sorveglianza del COVID-19 UK Genetics Consortium e Public Health England.
Per ogni settimana e in ogni regione del Regno Unito, gli autori hanno calcolato la percentuale di utenti che hanno riportato uno qualsiasi dei 14 sintomi COVID-19 ufficialmente riconosciuti.
Questa analisi non ha trovato legami significativi tra la proporzione di B.1.1.7 in ogni regione e il tipo di sintomi che le persone hanno dichiarato di aver sperimentato, o nel numero di persone che hanno riferito di aver avuto una malattia particolarmente lunga.
Inoltre non ha trovato alcuna prova che il tasso di reinfezione - la percentuale di persone che sono risultate positive al coronavirus prima del 1° ottobre 2020, risultando nuovamente positive più di 90 giorni dopo - sia stato influenzato dalla variante Kent.
Ma hanno trovato che il nuovo ceppo ha portato a un leggero aumento dell'indice R, ovvero il numero medio di nuove persone infettate da un paziente COVID-19 durante il loro periodo infettivo.
Il dottor Mark Graham, del King's College di Londra, ha detto: "La ricchezza dei dati catturati dall'applicazione COVID Symptom Study ha fornito un'opportunità unica per cercare potenziali cambiamenti nei sintomi e nella durata della malattia associati alla variante B.1.1.7".
"Rassicuranti, i nostri risultati suggeriscono che, nonostante sia più facilmente diffusa, la variante non altera il tipo o la durata dei sintomi sperimentati e crediamo che gli attuali vaccini e le misure di salute pubblica siano probabilmente efficaci contro di essa".
L'attuale ondata di infezioni da COVID-19 in tutta Europa è stata ampiamente attribuita alla variante Kent. Finora è stata rilevata in 27 paesi europei, con Danimarca, Italia, Irlanda, Germania, Francia, Paesi Bassi, Spagna e Portogallo che risultano tra i più colpiti dal nuovo ceppo.