Perché ci sono voluti 100 anni per restituire il Narodni dom alla comunità slovena

Una foto del Narodni Dom nel 1910, 10 anni prima del rogo. Nel 1927 è stato espropriato alla comunità slovena, oggi è sede della Scuola per Interpreti e Traduttori
Una foto del Narodni Dom nel 1910, 10 anni prima del rogo. Nel 1927 è stato espropriato alla comunità slovena, oggi è sede della Scuola per Interpreti e Traduttori Diritti d'autore Wikimedia Commons
Di Lillo Montalto Monella
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Secondo una storica dell’Università di Lubiana, il palazzo è stato simbolo di una presenza slovena accettata con difficoltà - e mai pienamente riconosciuta - nel centro di Trieste. Una disqualificazione i cui strascichi arrivano fino ai giorni nostri.

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Dopo 100 anni, l'Italia ha simbolicamente riconsegnato agli sloveni il Narodni dom, l'edificio polifunzionale della comunità slovena di Trieste dato alle fiamme dai fascisti il 13 luglio 1920.

Il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella e il suo omologo sloveno Borut Pahor, hanno presenziato alla firma di un protocollo d'intesa che trasferisce la proprietà dell'edificio a una fondazione costituita dalle due associazioni che rappresentano la comunità slovena, l'Unione Culturale Economica Slovena (Skgz), e la Confederazione delle Organizzazioni Slovene (Sso).

Presente anche lo scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor, in carrozzina, accompagnato da alcuni familiari. L'intellettuale, che compirà 107 anni il prossimo mese di agosto, era bambino quando ha assistito al rogo del Narodni dom, o Casa Nazionale, che all'epoca ospitava diverse organizzazioni della comunità slovena, società culturali e ginniche, una cassa di risparmio e un albergo, l'Hotel Balkan (con questo nome l'intero edificio era noto ai triestini).

Il rogo fu il vero e proprio battesimo del fuoco dello squadrismo fascista, non solamente locale.

La restituzione del Narodni dom è prevista dalla legge di tutela globale della minoranza slovena che il parlamento italiano ha varato nel 2001, ma ci vorrà ancora qualche anno prima che la devoluzione sia effettiva e lo stabile possa essere utilizzato a pieno dalla comunità slovena.

Oggi ospita la Scuola per interpreti della Università di Trieste, che dovrà trovare una nuova sistemazione.

Ma perché ci è voluto così tanto?

Requisito dalle autorità italiane nel 1927, l'edificio è tornato agli sloveni ad un secolo dal rogo e a quasi 20 anni dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale della legge 38 del 2001. Il periodo di transizione sarebbe dovuto durare 5 anni; tuttavia, visto che nulla si muoveva, nel 2017 gli allora ministri degli esteri Karl Erjavec e Angelino Alfano hanno dovuto ribadire l'impegno, fissando la data limite al 2020.

Secondo Marta Verginella, storica dell’Università di Lubiana, il palazzo è stato simbolo di una presenza slovena accettata con difficoltà - e mai pienamente riconosciuta - nel centro di Trieste già dal XIX secolo. Una disqualificazione "durata decenni", più forte nell'area urbana rispetto a quelle rurali e del Carso.

Si pensi alle scuole.

Ad inizio '900 "l'obiettivo del partito liberal-nazionale, che aveva la maggioranza al comune di Trieste, era quello di non aprire le scuole slovene nel centro città, limitando la presenza culturale, politica e demografica degli sloveni, che ad inizio secolo erano più di un quarto della popolazione triestina".

Questo elemento di fondo, aggiunge la storica, "rimane presente durante il fascismo e durante l'Italia repubblicana".

Negli anni fascisti, l'utilizzo della lingua slovena era vietato nelle scuole (si legga a proposito Il Martire Fascista di Adriano Sofri).

"Il difficile riconoscimento ha avuto strascichi sia a Trieste che a Gorizia, basti vedere dove sono stati costruiti gli istituti superiori sloveni a Trieste, nel quartiere semiperiferico di San Giovanni".

"Questa necessità di ostacolare l'urbanità slovena alla fine è stata assimilata anche dalla stessa popolazione slovena, che ha avuto la necessità di trincerarsi in ambiente più omogeneo, nel Carso triestino", afferma Verginella.

Dopo l'adesione della Slovenia alla UE, nel 2004, e l'abbattimento del confine, le relazioni si sono normalizzate e "la politica è stata costretta a seguire il sentimento della popolazione, che ormai - almeno in gran parte - non vuole avere più muri politici né ideologici".

Questi 19 anni di ritardi non sono però solamente imputabili anche alla parte italiana, ma secondo Verginella anche a quella slovena. "L'edificio, che un tempo ha rappresentato il cuore della società slovena, è stato rimosso anche da questa parte. Ci sono volute le prese posizione di Boris Pahor e tanto lavoro storiografico per far riemergere l'importanza edificio e la sua modernità".

Per fortuna, indica la storica, negli ultimi anni la situazione sta cambiando e le scuole locali a Trieste hanno introdotto corsi opzionali di sloveno.

Sono ancora poche, perché "la normalizzazione non è ancora facile dopo 100 anni di stigmatizzazioni della minoranza", ma molte famiglie triestine scelgono già di inviare i propri figli nelle scuole slovene per un'educazione bilingue, più aperta alle altre culture.

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Per l’intera regione Friuli-Venezia Giulia, il numero di persone che parlano sloveno può essere stimato in circa 46mila - il doppio, secondo l'agenzia slovena STA.

Con 57mila abitanti nel 1910, Trieste - principale porto dell'impero asburgico - era ritenuta "la più grande città slovena", quella cioè con il maggior numero di sloveni, superiore persino a Lubiana, che contava all’epoca 40.000 residenti.

Prima di raggiungere il capoluogo giuliano, i due presidenti italiano e sloveno si sono recati nel paese di Basovizza, sull'altopiano carsico, per rendere omaggio ai morti nelle foibe e ai quattro membri del Tigr (Trst Istra Gorica Rijeka) fucilati il 6 settembre 1930 in esecuzione di una condanna a morte emessa dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato. I quattro giustiziati sono divenuti simbolo della resistenza slava al fascismo.

Come riporta East Journal, la scelta di recarsi a Basovizza è stata criticata dal centro italo sloveno “Comitato Danilo Dolci” perché vista come una contropartita. "Questa visita sarebbe dovuta avvenire in un altro momento, diverso dalla giornata della solenne restituzione del Narodni Dom. Le due tragedie non sono infatti omologabili e sovrapponibili sul piano della storia”.

Al Narodni dom, scrive il quotidiano locale, Il Piccolo, dovrebbero trovare casa un centro musicale sloveno, una biblioteca nazionale e degli studi e un centro multiculturale.

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