Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha accennato domenica alla possibilità di un cambio di regime in Iran, poche ore dopo l'attacco a tre siti nucleari iraniani
Negli ultimi giorni, una serie di eventi straordinari e convergenti ha portato il regime iraniano in una posizione difensiva mai così fragile.
Il blackout che ha colpito vaste aree di Teheran dopo attacchi mirati alle infrastrutture energetiche, l'arresto di decine di agenti infiltrati accusati di spionaggio a favore di Israele e la mobilitazione popolare interna indicano che l’Iran non sta semplicemente subendo un’aggressione esterna: sta lottando per la propria sopravvivenza politica.
A rendere il quadro ancora più critico è l’impatto psicologico degli attacchi, che hanno colpito simboli del potere e della ricerca nucleare nel cuore della capitale, generando un effetto domino di paura e disillusione tra la popolazione.
Nel mirino impianti nucleari, prigioni e università
Israele ha sferrato nelle ultime ore un’ondata di attacchi che le autorità militari definiscono come i più violenti e chirurgici dall’inizio del conflitto. I raid hanno colpito l’Università Shahid Beheshti, istituzione chiave nel programma scientifico e nucleare del Paese, e i cancelli della prigione di Evin, dove sono rinchiusi dissidenti e oppositori politici.
Secondo l’agenzia Mehr, anche altri “siti sovrani” sono stati colpiti nel cuore di Teheran. Ma è il danneggiamento della rete elettrica principale a suscitare allarme: l’impatto è stato devastante, lasciando la capitale senza corrente per ore e minando la percezione di invulnerabilità dello Stato.
Spionaggio interno e sicurezza in crisi
In parallelo ai bombardamenti, il regime ha annunciato l’arresto di decine di individui appartenenti a presunte reti di spionaggio filoisraeliane. La frequenza con cui emergono queste operazioni suggerisce un grave indebolimento del sistema di intelligence iraniano.
Se un tempo i servizi di sicurezza apparivano impenetrabili, oggi mostrano crepe profonde, alimentando il sospetto che Israele non stia solo colpendo con missili, ma anche con informazioni interne, infiltrazioni e alleanze silenziose all’interno dell’apparato stesso.
Trump rilancia il tema: “Perché non un cambio di regime?”
A infiammare il dibattito è intervenuto anche il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, con una dichiarazione che non lascia spazio a interpretazioni: “Non è politicamente corretto usare il termine cambio di regime, ma se l’attuale regime iraniano non è in grado di rendere l’Iran di nuovo grande, perché non farlo?”.
Le sue parole rompono con la linea ufficiale della Casa Bianca, che tramite il segretario alla Difesa Pete Hegseth e il vicepresidente J.D. Vance aveva ribadito che l’obiettivo degli attacchi non è rovesciare il governo, ma limitarne le capacità nucleari. La dichiarazione di Trump, tuttavia, si inserisce in un contesto in cui il cambio di regime non appare più come una fantasia geopolitica, ma una prospettiva concreta.
Strategia israeliana: logorare il nemico fino al collasso
Secondo il portavoce militare israeliano Mike Tobin, la strategia di Israele non è solo militare, ma profondamente politica: “Vogliamo mantenere l’Iran in uno stato di caos costante”.
Colpendo centri di comando, basi missilistiche e infrastrutture strategiche, Israele punta a impedire ogni riorganizzazione del regime, logorandolo fino a un collasso interno. Non si tratta di una guerra classica, ma di un conflitto a bassa intensità distribuito nel tempo e nello spazio, che mira a spingere il sistema iraniano verso il proprio punto di rottura.
“È il momento di una rivolta totale”
Reza Pahlavi, figlio dello Scià e storico oppositore del regime, ha lanciato un appello senza precedenti alla popolazione: “La Repubblica islamica è finita. Una rivolta di massa è tutto ciò che serve per porre fine a questo incubo”.
Con queste parole, l’ex principe ereditario ha cercato di catalizzare il malcontento crescente nel Paese e ha promesso che l’Iran non cadrà nel caos dopo la fine del regime. “È il momento di riprenderci il nostro Paese”, ha dichiarato, facendo eco a un sentimento che si diffonde sempre più anche tra i giovani e le fasce urbane della società.
La grande domanda: il regime può ancora reggere?
Nonostante le dichiarazioni di forza da parte della guida suprema e dei vertici militari, le immagini che emergono dal campo raccontano una realtà molto diversa. Teheran si trova oggi in una posizione di difesa, non di offesa.
L’opinione pubblica è esausta, le reti di controllo si indeboliscono, e la legittimità interna vacilla sotto il peso delle umiliazioni militari e del malcontento sociale. I segnali sono chiari: blackout, spionaggio interno, appelli alla rivolta, isolamento internazionale e una strategia di logoramento costante da parte di Israele. In un contesto simile, una domanda si impone più urgente che mai: stiamo assistendo ai capitoli finali del regime iraniano?