Perché l'Unione europea non puó espellere i suoi Stati membri

L'Unione europea è formata al momento da 27 Stati
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Di Alice Tiday
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Ognuno dei 27 Paesi può decidere volontariamente di abbandonare l'Ue, come ha fatto il Regno Unito nel 2017. Ma un'estromissione coatta non è stata prevista nei Trattati, cosa che rende complicata la gestione delle derive illiberali

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Negli ultimi anni, l'Unione europea ha avviato procedimenti contro Polonia e Ungheria per le violazioni dello stato di diritto commesse nei due Paesi e ora si prepara a utilizzare contro il governo di Budapest un nuovo meccanismo, che blocca l'eborso dei fondi comunitari.

Ma se tutte queste misure dovessero rivelarsi inefficaci, l'Unione può espellere uno Stato membro? La risposta in breve è: No. La risposta più articolata è che sarebbero necessari anni di trattative e contrattazioni, con il rischio molto elevato di non arrivare a un accordo. Il motivo è abbastanza semplice: l'Unione non ha mai considerato questa possibilità.

"Legalmente parlando, non esiste il quadro giuridico per estromettere uno Stato membro dall'Ue, a differenza di quanto avviene ad esempio nel Consiglio d'Europa, da cui la Russia è stata espulsa poche settimane fa", dice a Euronews Adam Lazowski, professore di diritto europeo all'Università di Westminster.

L'allargamento a 27

L'Unione europea, come i suoi rappresentanti amano sottolineare, è nata come un progetto di pace al tampo in cui l'Europa emergeva dalla Seconda guerra mondiale. L'idea di base era che legami economici più profondi tra i Paesi, avrebbero reso meno probabili conflitti futuri. Nacque così ufficialmente nel 1952 la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (Ceca) con Germania Ovest, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo come membri fondatori.

La rapida espansione economica negli anni '60, la caduta dei regimi autocratici in Spagna, Grecia e Portogallo negli anni '70, i forti cambiamenti sociali innescati dalle proteste del 1968, le recessioni economiche come la crisi petrolifera del 1973 e il crollo del comunismo nell'Est Europa hanno trasformato la Comunità di sei Paesi in un'Unione di 27, non basata più su interessi economici, ma anche da valori comuni democratici.

Sono trascorsi ormai nove anni dall'allargamento più recente, con l'ingresso della Croazia nel 2013 e da allora l'Ubione europea ha perso un pezzo: Il Regno Unito ha infatti attivato l'articolo 50 del Trattato dell'Ue, quello che consente il recesso, nel marzo 2017, nove mesi dopo che i suoi elettori hanno decretato l'uscita dall'Unione. Due anni di negoziati hanno portato al distacco ufficiale, senza peraltro risolvere tutte le questioni in sospeso nelle relazioni tra Ue e Regno Unito.

Ma la Brexit non è stato l'unico grande cambiamento politico dell'ultimo decennio, che ha visto protagonisti anche i partiti populisti di destra, cresciuti e rafforzatisi nel consenso popolare a seguito di una retorica anti-europea.

Il vincolo dell'unanimità

Tra questi ci sono Fidesz in Ungheria e il partito Diritto e giustizia (PiS) in Polonia, che esprimono i governi dei rispettivi Paesi, ripetutamente trascinati in tribunale dalla Commissione europea per le riforme sulla magistratura e i mezzi di comunicazione, per le politiche adottate sui diritti civili, delle minoranze e delle persone migranti.

La Corte di Giustizia europea ha quasi sempre accolto le istanze della Commissione, il cui ruolo è quello di vigilare sul rispetto dei Trattati europei. In concreto, però, non è cambiato molto.

La Commissione europea ha lanciato bei confronti della Polonia la procedura prevista dall'Articolo 7 nel 2017 e il Parlamento europeo ha fatto lo stesso contro l'Ungheria nel 2018. Questo strumento, spesso definito come l"opzione nucleare" nelle mani dell'Ue, apre la strada a misure punitive, inclusa la sospensione dei diritti di voto di uno Stato membro nel Consiglio.

Ma da allora il processo è bloccato. Per essere portato a termine, infatti, l'Articolo 7 richiede il voto all'unanimità di tutti gli altri Paesi e Polonia e Ungheria si fanno di fatto scudo a vicenda. Lo ha confermato lo stesso Viktor Orbán, dopo la sua rielezione per il quarto mandato consecutivo co,e presidente ungherese: “Con la Polonia formiamo una mutua alleanza difensiva. Non permetteremo di escluderci dal processo decisionale europeo".

I deputati del Parmamento europeo hanno allora spinto per la creazione di un altro strumento, il meccanismo di condizionalità che vincola l'esborso dei fondi comunitari al rispetto dello dello stato di diritto, concordato alla fine del 2020 e confermato nella sua validità nel febbraio 2022 dalla Corte di Giustizia dell'Ue, che ha respinto un ricorso proprio di Polonia e Ungheria.

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ne ha annunciato l'attivazione per la prima volta, con l'Ungheria come destinataria della procedura. 

Non è ancora chiaro quali criteri verranno utilizzati e quanti fondi potrebbero essere trattenuti. La decisione finale dev'essere approvata dal Consiglio dell'Ue, tramite un voto a maggioranza qualificata, cioè con il sostegno del 55% degli Stati membri, che contino almeno il 65% della popolazione europea.

"L'UE dovrà dire di no"

Le autorità di entrambi i Paesi non hanno mai esplicitato una volontà netta di abbandonare l'Ue, pur attaccando violentemente le istituzioni europee e inviando loro messaggi velati di una possibile futura uscita dal blocco dei 27, nel tentativo di aumentare la pressione. "Polexit" e "Huxit" restano comunque ipotesi molto improbabili.

"Il sistema politico che vige in Ungheria si basa sulla corruzione diffusa e sull'abuso dei fondi europei: perciò  non sarebbe efficace al di fuori dell'UE", spiega a Euronews Daniel Hegedu, del think tank statunitense German Marshall Fund.

Zsolt Enyedi, professore e ricercatore presso il Democracy Institute della Central European University, è d'accordo: "Non credo che Orbán lascerà mai volontariamente l'Ue, principalmente per motivi finanziari. Ma penso che possa creare una situazione in cui l'Unione non avrà altra scelta che espellere l'Ungheria. Molte delle agenzie di rating che valutano gli standard democratici considerano l'Ungheria una "non democrazia", e basandosi su vari elementi riscontrati nel Paese".

"Se Orbán continua su questa strada, porterà il Paese nella condizione di un regime simile a quello di Vladimir Putin, in termini di ideologia e mentalità,  all'interno dell'UE. Sebbene non violento, questo tipo di sistema sarebbe inaccettabile per l'Unione europea, che deve impedirlo".

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"È stato davvero ingenuo non includere una procedura come quella presente nel Consiglio d'Europa"
Adam Lazowski
Università di Westminster

Il peccato originale

Tuttavia, non esiste una clausola o un articolo per l'espulsione dall'Unione nei trattati, perché "l'Ue si basa sullo Stato di Diritto e sulla presunzione che tutti gli Stati membri rispettino le sue componenti chiave", afferma il professor Lazowski.

"È stata una grande ingenuità credere che le condizioni per l'adesione avrebbero risolto tutti i problemi di un Paese e che le riforme promesse sarebbero state scolpite nella pietra. Ma come abbiamo visto in Ungheria, e soprattutto in Polonia, le cose possono peggiorare molto, molto rapidamente".

Per procedere all'allontanamento di un Paese, quindi, bisognerebbe richiedere una revisione formale del Trattato per aggiungere una procedura ad hoc. L'articolo 50, ad esempio, è stato inserito nel Trattato di Lisbona, adottato nel 2007 ed entrato in vigore nel dicembre 2009. 

Una volta modificato, il Trattato dovrebbe essere sostenuto all'unanimità dagli Stati membri, cosa che i governi nel mirino per il rispetto dello Stato di Diritto sii rifiuterebbero certamente di fare.

"È stato davvero ingenuo non includere una procedura come quella presente nel Consiglio d'Europa: l'articolo 8 dello Statuto, che ha consentito di estromettere la Russia nel giro di un mese dall'invasione dell'Ucraina", aggiunge Lazowski.

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La volontà degli elettori

Per Bruxelles, lo scenario migliore sarebbe probabilmente un ribaltone politico in Polonia e Ungheria, con la scelta di una classe politica più allineata all'Ue da parte degli elettori polacchi e ungheresi. 

L'annuncio di Ursula von der Leyen sull'attivazione del meccanismo di condizionalità contro l'Ungheria è arrivato solo due giorni dopo la vittoria di Orbán alle elezioni, suggerendo forse che la Commissione sperava in un esito diverso.

Ma se Ungheria e Polonia hanno dimostrato che smantellare le salvaguardie dello Stato di Diritto può essere un processo relativamente veloce, non è necessariamente vero il contrario.

Nel caso dell'Ungheria, ad esempio,dove i partiti di opposizione si sono uniti per presentare un fronte anti-Orbán, è probabile che anche in caso di cambio al potere si rivelerà difficile gestire l'eredità lasciata da Fidesz .

“Negli ultimi anni, leggi e regolamenti sono stati modificati in modo tale che praticamente tutti coloro che prendono decisioni rilevanti hanno incarichi di lungo periodo: 8, 10, 12 anni, in alcuni casi per tutta la vita. Vale per coloro che governano la magistratura, la commissione elettorale, i media, lo sport, lo spettacolo, le università e qualsiasi settore della vita pubblica”, segnala Enyedi.

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“Quindi il nuovo governo non sarà in grado di rimuovere queste persone, che continueranno a fare ciò che vuole Orban".

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