L’evacuazione del personale diplomatico Usa in Iraq e la fuga di cittadini americani dall’Iran indicano un’escalation senza precedenti dopo l’attacco israeliano a siti nucleari iraniani. Cresce il rischio di un conflitto regionale su vasta scala
L’evacuazione del personale non essenziale dall’ambasciata statunitense a Baghdad e dal consolato a Erbil segna un nuovo livello di allarme nella già tesa situazione mediorientale. Secondo quanto riferito da un funzionario statunitense, la misura è stata adottata “per abbondanza di cautela e in risposta all’acuirsi delle tensioni”.
Nonostante le sedi diplomatiche restino formalmente operative, la riduzione del personale riflette il timore concreto di un’improvvisa escalation militare nella regione.
Le evacuazioni fanno parte di un piano cominciato il 12 giugno, appena un giorno prima del controverso attacco israeliano contro le strutture nucleari iraniane, e rappresentano una chiara indicazione del crescente rischio percepito da Washington.
Baghdad: “La via militare è una minaccia alla stabilità globale”
Il governo iracheno ha reagito con durezza all’intervento statunitense e al contesto di crescente conflittualità. In un comunicato ufficiale, Baghdad ha condannato gli attacchi americani sul territorio iracheno e ha denunciato l’escalation come “una grave minaccia alla sicurezza e alla pace nella regione”.
Il portavoce del governo, Bassem al-Awadi, ha sottolineato che “le soluzioni militari non possono essere un’alternativa al dialogo e alla diplomazia” e ha avvertito che la prosecuzione di azioni ostili rischia di innescare “una pericolosa escalation che avrà conseguenze al di là dei confini di qualsiasi Paese”. L’Iraq si trova ora in una posizione delicata, stretto tra la sua alleanza con Washington e la crescente pressione regionale.
Cittadini americani in fuga dall’Iran
Parallelamente alla situazione in Iraq, gli Stati Uniti devono affrontare la difficoltà di proteggere i propri cittadini in Iran, dove l’assenza di relazioni diplomatiche rende ogni intervento consolare estremamente complesso. Un cablogramma del Dipartimento di Stato, datato 20 giugno, ha rivelato che centinaia di cittadini statunitensi hanno lasciato l’Iran la scorsa settimana, prevalentemente attraverso valichi terrestri verso l’Azerbaigian, l’Armenia e la Turchia.
Tuttavia, diversi casi di “ritardi e molestie” sono stati segnalati, incluso quello di una famiglia che ha riferito della temporanea detenzione di due parenti americani.
Il Dipartimento di Stato ha ribadito l’invito ai cittadini statunitensi a non recarsi in Iraq “per nessun motivo” e ha esortato quelli presenti in Iran a lasciare il Paese al più presto utilizzando le poche vie rimaste accessibili.
La regione sull’orlo della guerra aperta
Tutto è cominciato il 13 giugno, quando Israele ha lanciato una serie di attacchi aerei senza precedenti contro le centrali nucleari iraniane a Natanz, Isfahan e Fordo. Tel Aviv ha giustificato l’azione affermando di aver ricevuto informazioni che indicavano un imminente “punto di non ritorno” nel programma nucleare iraniano.
La risposta di Teheran è stata rapida e massiccia: decine di missili e droni sono stati lanciati contro obiettivi in territorio israeliano, in una spirale di violenze che ha fatto temere un conflitto diretto tra le due potenze regionali. Secondo fonti ufficiali iraniane, gli attacchi israeliani avrebbero causato la morte di almeno 400 persone. Dal canto suo, Israele riferisce di 25 vittime tra la propria popolazione in seguito agli attacchi iraniani.
Le dimensioni e la portata degli scontri pongono la comunità internazionale di fronte a un bivio: trovare una via diplomatica immediata o assistere all’innesco di un conflitto su scala regionale, dalle conseguenze potenzialmente globali.