In un periodo di blocco del reinsediamento dei rifugiati, 59 afrikaner sono arrivati negli Stati Uniti, accolti dai funzionari di Trump, scatenando dibattiti sulla discriminazione e sulle politiche dell'asilo
L’atterraggio di un aereo charter all’aeroporto internazionale di Dulles, vicino a Washington, ha acceso un acceso dibattito a livello internazionale. A bordo c'erano 59 sudafricani bianchi, gli afrikaner, i primi della loro comunità a essere accolti negli Stati Uniti come rifugiati.
Il loro arrivo non è passato inosservato: bandiere americane, benvenuto ufficiale e l’attenzione dei media di tutto il mondo hanno accompagnato il loro ingresso.
La decisione dell’amministrazione Trump di concedere lo status di rifugiati a questo gruppo arriva in un momento di forte restrizione. Solo poche settimane prima, un ordine esecutivo aveva sospeso a tempo indeterminato il Programma di ammissione dei rifugiati degli Stati Uniti, bloccando migliaia di richieste da parte di persone provenienti da aree di guerra e persecuzione.
Le conseguenze globali del blocco dei rifugiati
Le critiche non si sono fatte attendere nemmeno da parte delle organizzazioni per i diritti umani. Bill Frelick, direttore per i diritti dei rifugiati di Human Rights Watch, ha evidenziato come questa eccezione per gli afrikaner indebolisca l’intero sistema internazionale di protezione umanitaria. “C’erano già pochi posti disponibili per il reinsediamento. Con il blocco degli Stati Uniti, ora quella percentuale già minima si riduce ancora di più”, ha spiegato.
La decisione rischia inoltre di provocare un effetto domino: se il principale Paese di reinsediamento al mondo rifiuta i rifugiati, perché dovrebbero accoglierli altri Stati, spesso con meno risorse? L’umanitarismo, già messo a dura prova, potrebbe subire un colpo quasi irreversibile.
Rifugiati veri lasciati indietro: tra limbo e promesse infrante
Mentre gli afrikaner hanno potuto atterrare negli Stati Uniti in pochi mesi, migliaia di rifugiati approvati e già pronti al viaggio sono rimasti bloccati nei Paesi terzi. Alcuni di loro avevano venduto tutto, lasciato i propri lavori e le abitazioni, certi che il trasferimento fosse imminente. Invece, si trovano ora in un limbo giuridico e umano.
L’avvocata Mevlüde Akay Alp, dell’International Refugee Assistance Project (Irap), denuncia un processo accelerato e fortemente discriminatorio. Ha raccontato la storia di Pacito, un ragazzo fuggito dalla guerra in Congo all’età di 13 anni, che avrebbe dovuto volare negli Usa due giorni dopo il blocco imposto da Trump. Oggi, è ancora in attesa in Kenya, nonostante le sentenze dei tribunali americani a suo favore.
Questo caso è solo uno tra migliaia, e comprende anche persone che hanno rischiato la vita collaborando con le forze armate statunitensi in Iraq e Afghanistan. “Abbiamo a che fare con vite reali, promesse reali infrante”, ha concluso l’avvocata Akay Alp.
Un precedente pericoloso per il futuro del diritto d’asilo
La decisione dell’amministrazione Trump di ammettere un gruppo specifico di rifugiati sulla base della razza e delle affinità ideologiche segna un punto di svolta nelle politiche migratorie statunitensi. Oltre a mettere in discussione il concetto stesso di rifugiato secondo il diritto internazionale, rischia di compromettere la fiducia globale nell’impegno degli Stati Uniti verso i diritti umani.
In un momento in cui milioni di persone nel mondo cercano protezione da guerre, persecuzioni e catastrofi, il messaggio inviato è chiaro ma allarmante: non tutti i rifugiati sono uguali. E l’asilo politico, un tempo simbolo di speranza, rischia di diventare uno strumento di selezione ideologica.