Caso Balotelli e razzismo negli stadi: e se gli ultras fossero la soluzione?

Caso Balotelli e razzismo negli stadi: e se gli ultras fossero la soluzione?
Diritti d'autore AFP/Philippe Laurenson
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Di EK, Redazione italiana
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Succede quando stimolano squadre e dirigenze inadeguate ad intervenire sul fenomeno, come nel caso del Borussia Dortmund, in Germania.

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"Gli Ultras vengono presentati spesso come il problema, ma sono lo strumento con cui fare pressione per ottenere una presa di posizione da parte delle società sportive. Solo quando i giocatori rivendicano i loro diritti, e i tifosi si mobilitano, allora i club sono costretti a prendere sul serio la questione del razzismo".

Mark Doidge, ricercatore di Brighton che da anni studia il fenomeno degli ultras e direttore dell’Anti-Discrimination Division of Football Supporters Europe (FSE), commenta con Euronews il fenomeno del razzismo negli stadi, puntando il dito sulle responsabilità delle classi dirigenti e sottolineando l’importanza degli ultras nella politica delle squadre.

Il 3 novembre scorso Mario Balotelli, attaccante del Brescia, lancia la palla contro la curva del Verona che gli urla dietro versi da scimmia mentre è alle prese con un’azione. L’episodio rivitalizza il dibattito sul razzismo negli stadi italiani e il capo ultras del Verona viene punito dalla società con una misura interdittiva che lo allontana dallo stadio della squadra fino al 2030.

"Il razzismo negli stadi non è una piaga sociale soltanto italiana", commenta Doidge. "Non dimentichiamoci poi che quando si tende a parlare di razzismo, si mette in discussione solo la singola voce di qualche tifoso, mai l’intera struttura sociale che, per esempio, esclude in partenza molte persone nere dallo sport, e che è presente in tutta Europa. Di certo nazioni come l’Inghilterra o la Germania, che per ragioni storiche affrontano da molto più tempo le emigrazioni, oggi sono più preparate a combattere il razzismo negli stadi".

Mario Balotelli combatte da solo: in Inghilterra manager e giocatori hanno lasciato il campo in segno di solidarietà

Per Doidge la presa di posizione di Balotelli, se non ha alle spalle l’appoggio della squadra, non basta: "La reazione dei compagni di squadra e dei giocatori dell’Hellas Verona durante l’incidente dimostra che l'attaccante del Brescia era solo. Quando un episodio simile si è verificato in una partita della FA Cup, il campionato inglese, tra Haringey Borough e Yeovil Town, i manager e i giocatori di entrambe le squadre hanno lasciato il campo in solidarietà con i giocatori, vittime di insulti razzisti. La vera domanda è se in Italia i proprietari e i dirigenti dei club vogliono affrontare il problema del razzismo e prendere posizione".

Doidge chiarisce: "Ci possono essere più gruppi di ultras dentro lo stesso club, quindi suggerire che siano tutti uguali è difficile. Ma sono caratterizzati da un profondo senso di lealtà verso il club. Così, quando la squadra viene attaccata dall'esterno - dalla polizia, dai politici, dalla UEFA – le rimangono fedeli. Per questo il club deve assumere un ruolo centrale nella lotta al razzismo".

Quando la squadra viene attaccata dall'esterno - dalla polizia, dai politici, dalla UEFA – gli ultras le rimangono fedeli. Per questo il club deve assumere un ruolo centrale nella lotta al razzismo
Mark Doidge
Direttore dell’Anti-Discrimination Division of Football Supporters Europe (FSE)

L’intervento della Uefa non basta

Per il ricercatore di Birmingham spostare il dibattito sulla necessità di regole più stringenti in questo caso non serve: "Un regolamento apposito potrebbe aiutare a punire il razzismo negli stadi, ma la Serie A e la FIGC non lo hanno fatto in modo efficace, né la UEFA. L’associazione europea può fornire una guida, ma molti tifosi non ne riconoscono l’autorità e non la amano, dopo alcune regole imposte al calcio come quelle che vietano la pirotecnica e altre espressioni che appartengono alla cultura degli ultras. Il razzismo, purtroppo, è stato inserito in questa stessa categoria".

Gli ultras non sono il problema, ma la soluzione

Se quindi, a detta di Doidge, lo strumento più efficace per combattere il razzismo è nelle mani dei dirigenti sportivi, gli ultras dovrebbero essere i protagonisti di questo intervento: "L’immagine dell’ultras violento e intimidatorio fa il gioco di politici e classi dirigenti sportive, che ne fanno spesso il capro espiatorio di ogni problema. Ma altri casi europei, come quello del Borussia Dortmund (dove i tifosi hanno preso posizione e portato avanti diversi progetti contro il razzismo) insegnano che gli ultras non sono per forza il problema: al contrario sono la soluzione, nel momento in cui stimolano la squadra a intervenire sul fenomeno. Gli unici cambiamenti negli stadi sono avvenuti quando calciatori e tifosi hanno costretto i manager della squadra a prendere posizione. Finché in tutta Europa i proprietari dei club continueranno a fare soldi e consolidare il loro potere senza essere stimolati dall’interno, non avranno incentivi a combattere il razzismo".

Finché in tutta Europa i proprietari dei club continueranno a fare soldi e consolidare il loro potere senza essere stimolati dall’interno, non avranno incentivi a combattere il razzismo
Mark Doidge
Direttore dell’Anti-Discrimination Division of Football Supporters Europe (FSE)

Quando altrove il razzismo da parte dei dirigenti viene punito duramente: il caso Sterling in NBA

Dopo lo sfogo di Balotelli in campo, una delle posizioni che hanno fatto più discutere è stata quella dell'allenatore del Verona, Ivan Juric, che ha negato - assieme a tanti altri - che ci siano stati cori razzisti nei confronti del nazionale italiano.

In Italia, le giustificazioni – intenzionali o goffe che siano – arrivano spesso anche dai vertici dello sport, come quando il presidente del CONI Giovanni Malagò disse a Radio 24 che "è sbagliato se qualcuno fa “buu” a un giocatore di colore, ma è ancora più sbagliato quando uno che guadagna 3 milioni di euro all’anno si lascia cadere in area e magari è anche contento di prendere un calcio di rigore".

Altro sport, altro continente, altra cultura, ma stesso problema: in NBA esiste una politica di tolleranza zero nei confronti del razzismo istituzionale.

Nel 2014, un sito scandalistico statunitense, diffonde degli audio di Donald Sterling, noto palazzinaro di Los Angeles e proprietario della squadra di basket dei Los Angeles Clippers. Nella registrazione vocale, il magnate rimprovera la sua amante di essersi fatta fotografare con “un negro”, in quel caso nientedimeno che Magic Johnson, chiedendole di non portare più afroamericani alle partite, perchè non voleva essere associato a persone del genere.

La reazione dell’Nba fa la storia. Il general manager, Adam Silver, bandisce il magnate a vita dal campo della Lega e gli infigge una multa da 2,5 milioni di dollari - il massimo imponibile. Da pagare entro 30 giorni.

Silver ha pieni poteri, è il "dittatore" della NBA, per volere delle squadre stesse le quali lasciano che la lega sia fortemente centralizzata. Il ban a un proprietario impone che il soggetto non possa decidere niente della sua squadra, né andare a vedere partite né allenamenti, né parlare con giocatori o allenatore.

Una sanzione tutto sommato gestibile per Sterling - pur sempre miliardario: la multa viene pagata e nuovo presidente della squadra diventa la moglie – ma esemplare nella partita contro il razzismo nello sport.

Nel mentre i Clippers si giocano i playoff: scendono in campo con la maglia al contrario e la gettano a terra, giocatori afroamericani compresi. In testa, ovviamente, Chris Paul, che ne era il leader.

Una protesta contro chi pagava loro lo stipendio, effettivamente. Per completare l'opera, Silver fa mettere ai voti delle altre squadre (con maggioranza assoluta) il fatto che Sterling avrebbe dovuto forzatamente vendere la squadra. Ottiene il 75% dei voti favorevoli e quindi, per volere della maggioranza, i Clippers vengono messi in vendita.

La NBA stessa si occupa di trovare un acquirente credibile con voglia di investire e trova Steve Ballmer, ex CEO di Microsoft multimiliardario, che ha risollevato le sorti sportive dei Clippers e cancellato lo stigma del razzismo dal suo nome. Oggi se la gioca per il titolo NBA avendo appena firmato Kawhi Leonard, l'MVP delle scorse finali NBA.

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A distanza di anni, il caso del magnate americano cacciato per razzismo insegna ancora qualcosa sull’importanza dei provvedimenti forti nei confronti dei dirigenti inadeguati - anche se tra le arene dell’NBA e gli stadi italiani si giocano partite molto diverse.

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