UNHCR in Libia, parte 4 - La mappa e le storie dei centri di detenzione

UNHCR in Libia, parte 4 - La mappa e le storie dei centri di detenzione
Diritti d'autore Migranti rinchiusi nel centro di Tarik Sika - Photo: Sara Creta
Diritti d'autore Migranti rinchiusi nel centro di Tarik Sika - Photo: Sara Creta
Di Sara Creta
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Rimangono operativi 23 centri di detenzione anche se alcuni continuano a funzionare anche dopo la chiusura ufficiale. Sono gestiti ufficialmente dal governo di accordo nazionale, ma in realtà a controllarli è complesso mosaico di milizie libiche. La quarta parte della nostra inchiesta.

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Nell'ottobre 2018, undici minori non accompagnati che dovevano essere rimpatriati nel loro paese d'origine sono completamente scomparsi dal centro di detenzione di Janzoor. 

Gli operatori umanitari che si erano recati nella struttura per recuperarli, si sono trovati la sorpresa. Ci sono voluti sei mesi per scoprire che ne era stato di loro. Registrati e pronti a partire, "sono stati venduti e alle loro famiglie è stato chiesto il riscatto", ricostruisce un membro dello staff dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM/IOM) che preferisce rimanere anonimo.

Storie di questo genere sono all'ordine del giorno in Libia e, come abbiamo scritto nella prima parte di questa inchiesta, molti addetti ai lavori si dicono preoccupati del fatto che UNHCR, l'agenzia Onu per i rifugiati, non abbia "alcun potere di migliorare le condizioni nei centri di detenzione".

Eppure, come scriviamo qui, UNHCR è proprio uno dei partner su cui conta l'Unione Europea per garantire il rispetto dei diritti umani nell'ambito delle sue politiche di esternalizzazione della question migratoria.

Nel febbraio 2019, il governo libico ha rivelato l'esistenza di 23 i centri di detenzione ancora operanti in Libia con oltre 5.000 richiedenti asilo al loro interno. Nonostante la gestione ufficiale sia nelle mani del Governo di Accordo Nazionale della Libia, riconosciuto dalle Nazioni Unite, in realtà i centri sono effettivamente controllati dal complesso mosaico di milizie libiche. Anche i centri nominalmente sotto il Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (DCIM) sono nella sostanza alla mercé dei gruppi armati che controllano i quartieri in cui si trova la struttura.

La guardia costiera che spara e uccide

Le milizie, note anche come "katibas", pattugliano le entrate e gestiscono i centri di detenzione. In molti casi, però, migranti e rifugiati vengono trattenuti in arresto in luoghi che non sono considerati centri di detenzione ufficiali, ma "luoghi di permanenza" per svolgere le indagini. Da protocollo, i migranti dovrebbero essere trasferiti appositi centri di detenzione, ma in realtà le procedure sono raramente rispettate e i richiedenti asilo sono detenuti senza alcun controllo legale né diritti.

L'odissea di molti migranti e rifugiati non inizia però negli hangar o nelle celle sovraffollate ma in mare.

Secondo le cifre della Guardia Costiera libica, da gennaio ad agosto 2019 sono state intercettate e riportate in Libia quasi 6mila persone.

Il 19 settembre scorso, un sudanese è morto ucciso da un colpo di arma da fuoco allo stomaco. Era stato riportato a riva poco prima. Il personale dell'OIM/IOM è stato testimone dell'episodio, avvenuto nel punto di sbarco di Abusitta, a Tripoli. Qui, le 103 persone ricondotte a terra si erano opposte ad un nuovo trasferimento nei centri di detenzione. Secondo la ricostruzione dell’OIM, quando le persone hanno iniziato a scappare, uomini armati hanno iniziato a sparare.

"Questa morte ci richiama fortemente alle gravi condizioni in cui si trovano i migranti prelevati dalla Guardia Costiera libica, dopo aver pagato i trafficanti per essere portati in Europa, si ritrovano nei centri di detenzione," sono le parole del portavoce dell’OIM/IOM, Leonard Doyle.

La maggior parte delle persone intercettate dalla Guardie Costiera libica viene spesso riportata ad al-Khoms, una città costiera a 120 km a est della capitale libica.

Khoms - Foto: Sara Creta

Le milizie entrano ed escono quando vogliono: migranti torturati e venduti

Secondo fonti Onu, le guardie delle due strutture di detenzione della città - al-Khoms e Souq al-Khamis - hanno facilitato l'accesso nei centri alle milizie o hanno avuto paura di negare loro l'ingresso.

"Sarò onesto con voi, non mi fido di nessuno nel centro di al-Khoms", sono le parole di un ex funzionario della DCIM intervistato da Euronews. "Il centro di detenzione è stato ufficialmente chiuso dalla DCIM, ma le milizie fanno quello che vogliono e non rispettano gli ordini del Ministero degli Interni. Le persone vengono torturate, vendute e rilasciate solo dopo aver pagato un riscatto. La gestione pè nelle mani delle milizie di al-Khoms che agiscono indipendentemente dal governo".

Lo scorso giugno, durante una riunione di coordinamento del settore protezione a Tripoli, le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali hanno sollevato la questione della scomparsa quotidiana di persone.

"In una settimana sono scomparsi almeno 100 detenuti e, nonostante la chiusura del centro, la Guardia Costiera libica ha continuato a portare i rifugiati nel centro di detenzione di al-Khoms", si legge in una nota dell'incontro visionata da Euronews.

Il capo di un'organizzazione internazionale presente all'incontro, che ha chiesto di rimanere anonimo, ci ha detto: "Molte organizzazioni hanno preferito voltare le spalle a questa situazione e non hanno più visitato il centro. C'erano 19 persone provenienti dall'Eritrea a rischio, tra cui giovani donne tra i 14 e i 19 anni".

In una conferenza stampa dello scorso giugno, il portavoce dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Rupert Colville, ha parlato di donne detenute vendute come schiave sessuali.

David, un migrante proveniente dal centro di detenzione di Misrata, è riuscito ad uscirne dopo essere transitato da una safe house di al-Khoms. Ricorda come il personale del centro abbia "estorto denaro ai detenuti per mesi. Non ho avuto scelta perché l'Onu si è rifiutata di registrarmi in quanto vengo dalla Repubblica Centrafricana e la mia nazionalità non è tra quelle riconosciute dall'UNHCR".

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John è rinchiuso nel centro di Tarik Al Sika da oltre due anni. Ha ricevuto solo un foglietto di carta dall'UNHCR con su scritto il suo numero di registrazione. Foto: Sara Creta

Centri di detenzione formalmente chiusi, ma di fatto ancora aperti

Nell'agosto 2019, le autorità libiche a Tripoli hanno confermato la chiusura di tre centri di detenzione a Misrata, Khoms e Tajoura, ma i funzionari della DCIM e i migranti con i quali abbiamo avuto modo di parlare ci hanno confermato che i centri sono ancora in funzione. Nonostante sia impossibile verificare in modo indipendente lo stato attuale delle strutture - dato che il Ministero dell'Interno di Tripoli non autorizza l'accesso - Euronews ha potuto parlare al telefono con alcuni detenuti.

"Basta portare una lettera con l'autorizzazione del Ministero dell'Interno e vi farò entrare", ci ha detto al cellulare un comandante di Tajoura, confermandoci di fatto come il centro fosse effettivamente ancora in funzione. Un'altra fonte della DCIM di Tripoli sottolinea come il centro di Tajoura non sia mai stato chiuso; la milizia che gestisce il centro continua ad arrestare arrestando persone in strada per riempire nuovamente gli hangar.

La decisione di chiudere il centro di detenzione di Az-Zāwiyah - di cui parliamo nelle parti 1 e 2 di questa indagine - è stata presa nell'aprile 2018 dall'ex capo dellla DCIM, il colonnello Mohamed Besher.

Il centro si è però trasformato in un luogo di detenzione temporanea per gli arresti e le indagini.

Situato presso la raffineria Az-Zāwiyah, controllata dalla brigata Al-Nassr dal 2011, è collegato alla base della guardia costiera Az-Zāwiyah. Sia il comandante dell'unità della Guardia costiera libica che il capo della brigata Al-Nasr sono stati sanzionati dalle Nazioni Unite e dagli Stati Uniti per il presunto coinvolgimento nella tratta di esseri umani e nel traffico di migranti.

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Mohammed Kushlaf, che lavora in collaborazione con "Osama" (➡️ VEDI PARTE 2), è il responsabile del centro di detenzione. Il nome di quest'ultimo appare 67 volte nell'indagine condotta dal procuratore italiano Luigi Patronaggio.

Tewolde, 23 anni. Nell'aprile '18 "ho provato la traversata di nuovo da Zuwara. La guardia costiera libica ci ha catturato e riportati a Zuwara, dove siamo stati 10 giorni. Poi Gharyan, poi Tareq Sikka, Tareq el-Matar, Zintan e Gharyan". Foto: Sara Creta

Centri di detenzione che finiscono sulla linea di fuoco

L'inchiesta giudiziaria "conferma le condizioni disumane" in cui si trovano a vivere molti migranti e "la necessità di agire, a livello internazionale, per proteggere i loro diritti umani più elementari".

Il Governo di Accordo Nazionale della Libia ha sostenuto le sanzioni Onu e ha condannato pubblicamente il traffico di esseri umani. Il procuratore capo libico ha anche emesso un ordine di sospensione e custodia cautelare per il comandante della Guardia Costiera libica ma, come conferma un avvocato libico impiegato al Ministro di Giustizia, l'ordine è rimasto lettera morta.

Fonti della DCIM ci riferiscono che tra il settembre 2018 e l'aprile 2019 - quando le truppe dell'Esercito Nazionale Libico (LNA) guidate dal generale Khalifa Haftar hanno preso possesso dei sobborghi meridionali di Tripoli - molti centri di detenzione si sono ritrovati sulla linea degli scontri. Le strutture di Salaheddin, Ain Zara, Qasr Bin Ghashir e Tariq Al Matar sono state chiuse proprio a causa del conflitto.

Come conseguenza, grandi gruppi di rifugiati e migranti si sono trovati per strada, o sono stati trasferiti in altre località. Un funzionario della DCIM di Tripoli ci rivela che "il centro di Tariq Al Matar è stato nel bel mezzo degli scontri e molti rifugiati sono partiti alla ricerca di un posto più sicuro altrove, dopo che alcuni di loro erano rimasti feriti. Un gruppo è stato spostato ad Ain Zara e un altro nel centro di detenzione Janzour, a circa 20 chilometri a sud-ovest del centro di Tripoli".

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Centro di detenzione di Khoms - Foto: Sara Creta

Migranti reclutati a forza per aiutare le milizie nella guerra civile libica

Nei mesi scorsi, diversi rifugiati testimoniano di essere stati costretti a caricare camion di armi e spostare arsenali al servizio dei gruppi armati. Reclutati loro malgrado come ausiliari di guerra, insomma.

Alcuni migranti sono stati impiegati direttamente con le milizie locali nel sobborgo di Tripoli di Tarhouna: qui all'epoca i miliziani controllavano il centro di detenzione di Qasr Bin Ghashir. "Nessuno combatteva sul fronte, ma ci chiedevano di aprire e chiudere il cancello e di spostare e impacchettare le armi", riferisce Musa, sudanese scappato da Qasr Bin Ghashir dopo la sparatoria di aprile di cui abbiamo parlato nella ➡️ PARTE 1.

Qui erano state rinchiuse 700 persone: prove video e fotografiche, visionate da _Euronews, _mostrano come almeno 12 migranti detenuti siano stati feriti da armi da fuoco. MSF ha contato diverse uccisioni.

Il 2 ottobre, un altro ferimento: Abdalmajed Adam, rifugiato del Sud Sudan, è stato colpito da un proiettile vagante alla spalla e "portato in un ospedale militare", aggiunge Musa.

Centro di detenzione a Misrata. Foto: Sara Creta

La milizia che controlla l'area dove si trova il centro di detenzione di Abu Salim è nota come Ghaniwa ed è allineata al Governo di Accordo Nazionale. Il gruppo ha chiesto ai rifugiati, soprattutto sudanesi - che parlano quindi arabo - di seguirli in prima linea. "Lo scorso agosto ci hanno portato a Wadi Al-Rabea, a sud di Tripoli, e ci hanno chiesto di caricare le armi. Io ero uno di loro. Hanno preso cinque di noi dal centro", ricorda Amir, richiedente asilo sudanese detenuto ad Abu Salim.

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Un ex ufficiale della DCIM ha confermato che, nel giugno 2018, il responsabile DCIM di Abu Salim, Mohamed al-Mashay (alias Abu Azza), è stato ucciso da un gruppo armato a seguito di una lotta interna per il potere. A Qasr Bin Ghashir i proiettili sono volati invece per una disputa sul controllo del territorio, come ci indica un ex ufficiale DCIM. Si tratta infatti di un punto molto strategico dato che da lì passa la strada principale per entrare a Tripoli.

Un funerale a Tripoli - Foto: Sara Creta
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