Confini aperti e terreni da coltivare: il "modello Uganda" per l'accoglienza dei rifugiati

Un gruppo di rifugiati a Kampala, la capitale dell'Uganda
Un gruppo di rifugiati a Kampala, la capitale dell'Uganda Diritti d'autore Vincenzo Genovese
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Di Vincenzo Genovese
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L'Uganda adotta una politica sui rifugiati unica in Africa, ora messa a rischio dall'aumento degli arrivi e dalla diminuzione degli aiuti umanitari internazionali

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Gli occhi di Damaria Chimpaye si illuminano quando in lontananza appaiono i suoi bambini. È l’unico sorriso strappato a un volto triste, come la storia che racconta.

A 41 anni ha partorito nove volte, è sopravvissuta a due attacchi armati, ha perso la casa e il marito e non sa dove siano tre dei suoi figli. Viene dalla Repubblica democratica del Congo, ma da quasi due anni risiede in Uganda: un Paese dell’Africa orientale che ospita 1,6 milioni di rifugiati e consente loro, quantomeno, di vivere in pace.

L'Uganda è il primo Stato in Africa, e il terzo al mondo, per numero di rifugiati rispetto alla popolazione, il 3,6%: più del doppio dell'Unione europea (1,5%) e sette volte l’Italia (0,5%). Arrivano soprattutto da Sud Sudan e Repubblica Democratica del Congo, Paesi confinanti entrambi martoriati da violenze e scontri.

L'81% di loro sono donne e bambini, spesso fuggiti dopo che i loro villaggi sono stati assaliti e i loro mariti e padri uccisi. Come nel caso di Damaria: quando uomini armati hanno attaccato il suo paese, nel Congo orientale, il marito e tre dei figli sono scomparsi. Da allora non ha più loro notizie.

Lei è riuscita a scappare con gli altri, vivendo due anni da sfollata interna in altri villaggi congolesi. Poi un altro attacco armato, a cui accenna con gli occhi bassi: la cicatrice interiore dev’essere più profonda di quella, molto vistosa, che ha sul braccio destro.

Damaria si è incamminata verso Est, con un bambino piccolo in braccio e altri cinque intorno, fino a raggiungere il confine con l’Uganda. Una carovana di persone come tante altre che hanno varcato la frontiera ugandese in questi anni: ragazzi costretti ad abbandonare tutto, giovani madri con figli piccoli, donne in stato di shock per le violenze subite, perfino bambini senza genitori, che si uniscono alla folla in fuga per istinto di sopravvivenza.

Ora Damaria è alloggiata nel campo rifugiati di Nakivale, uno dei più grandi e antichi del continente: un’area di 185 chilometri quadrati che ospita 185mila persone nel sud-ovest dell'Uganda. Il suo villaggio le manca, sua madre ci vive ancora. Ma non ci tornerà mai.

Damaria Chimpaye (la seconda da destra) insieme ad alcuni dei suoi figli e alle vicine di casa
Damaria Chimpaye (la seconda da destra) insieme ad alcuni dei suoi figli e alle vicine di casaVincenzo Genovese

L’eccezione ugandese

L'Uganda adotta una politica sui rifugiati unica in Africa, e forse al mondo. Lascia entrare praticamente tutti, garantendo una protezione immediata a chi proviene da regioni in guerra: si chiama prima facie, e consente ai profughi congolesi, sudanesi e sud sudanesi di evitare il lungo processo di richiesta di asilo.

“Vengono riconosciuti come rifugiati ai punti di accesso situati lungo le frontiere e poi trasferiti negli insediamenti come quello di Nakivale”, dice a Euronews Claire Birungi Agaba del Norwegian Refugee Council, una delle organizzazioni coinvolte nell’accoglienza.

Per mantenere questa politica, il governo ugandese conta sugli aiuti umanitari dei partner internazionali, che nei 14 insediamenti per rifugiati del Paese forniscono supporto materiale e finanziano le infrastrutture. Scuole e ospedali, costruiti nelle zone rurali remote dove sono dislocati gli insediamenti, vengono poi utilizzati sia dai rifugiati che dalla popolazione locale, piuttosto benevola nei confronti dei nuovi arrivati anche grazie alle comuni appartenenze tribali.

Le tante organizzazioni umanitarie presenti sostituiscono le autorità nazionali nel fornire cibo, educazione e assistenza medica. Sono finanziate soprattutto da Stati Uniti, Unione europea e Nazioni Unite. Per un Paese come l'Uganda, che ogni anno impiega il 40% del proprio bilancio a rimborsare gli interessi sul debito, è impossibile fare altrimenti.

Negli insediamenti, i più bisognosi ricevono una casa, gli altri una piccola somma per acquistare i materiali necessari a costruirla. Ogni rifugiato ha diritto a un appezzamento di terreno da coltivare e a un sostegno in denaro e cibo, che però dipende dai fondi a disposizione: nel 2020 si riusciva a coprire il 100% del fabbisogno alimentare, spiegano dall’Unhcr, ora non più.

Ad esempio, a Nakivale le persone sono suddivise in tre categorie. I più vulnerabili ricevono 24mila scellini ugandesi al mese, circa cinque euro e sessanta. I meno vulnerabili 12mila, e i pochi considerati in grado di farcela senza, non ottengono nulla. Ogni sei mesi si rivalutano i bisogni: i rifugiati conoscono le regole e cercano di rientrare nella prima categoria, ad esempio presentandosi come genitori single invece che come nuclei famigliari.

"Il cibo che mangiamo è sempre cotto a metà"
Damaria Chimpaye
Rifugiata congolese nel campo profughi di Nakivale

La fame nei campi rifugiati

In alternativa al sostegno in denaro, c’è quello alimentare: tre chili di riso e mezzo chilo di fagioli al mese a persona. Che però bastano appena per due settimane, racconta Damaria. Il piccolo appezzamento di terra che coltiva le dà due raccolti all’anno, da dieci chili di fagioli ciascuno.

Impossibile in queste condizioni sfamare una famiglia allargata: oltre ai sei figli biologici, sotto il suo tetto ce ne sono altre due, di 17 e 18 anni, che Damaria ha accettato di crescere nell’ambito di un progetto di affidamento volontario attivo nel campo di Nakivale.

Per mettere insieme il pranzo con la cena, lei e le due figlie più grandi lavorano a giornata in altri campi: meno di un euro per sei ore sotto il sole quando va bene, la altre volte una ciotola di matoke, il purea di banane locale. E il poco cibo di cui si nutre la famiglia è sempre cotto a metà: le foglie di mais usate per fare il fuoco su cui mettere le pentole bruciano troppo velocemente.

A Nakivale, la fame si vede nelle pance dei bambini, gonfie per una sindrome causata dall’insufficiente apporto di proteine, e si sente nei racconti dei più grandi. Il tasso di maluntrizione del campo rifugiati è del 2,6%, una soglia definita “accettabile” da Justin Okello del Nakivale Health Center III, la clinica principale della zona, finanziata dai donatori internazionali.

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Ma durante determinati periodi il livello sale pericolosamente, soprattutto tra i bambini sotto i cinque anni. "Il risultato è che questi bambini sono molto più esposti a contrarre infezioni e a morire a causa di queste infezioni, che nei loro coetanei nutriti a sufficienza sarebbero facilmente curabili, a volte senza neanche usare medicine". Gli anticorpi, spiega il dottore a Euronews, sono fatti di proteine chiamate immunoglobuline, che scarseggiano nei bambini malnutriti.

Chi sopravvive, cresce comunque peggio di quanto dovrebbe. Il tasso di arresto della crescita infantile è al 40%: quattro bambini su dieci, cioè, sono più bassi e pesano meno di quanto dovrebbero per la loro età, con conseguenze per lo sviluppo fisico e mentale.

“I primi mille giorni di vita di un bambino sono un momento cruciale. Tutto ciò che va storto in questo arco di tempo rischia di avere conseguenze per tutta la vita: un bambino maluntrito può facilmente diventare un ragazzo che non in grado di finire gli studi e trovarsi un lavoro”.

Nel campo di Nakivale un programma speciale chiamato “Nutricash” assegna 48mila scellini al mese, circa 11 euro, alle donne incinte o con bambini fino ai due anni, proprio per combattere la malnutrizione infantile. Ma come spiega il dottor Okello, questi soldi vengono usati dalle madri per sfamare tutta la famiglia, perdendo così il loro scopo.

Oltre alla fame, malattie, carenza di acqua potabile, abbandono scolastico e mancanza di prospettive sono le piaghe che affliggono i minori, cioè la maggior parte di chi vive negli insediamenti. Secondo le statistiche a livello nazionale, i rifugiati sotto i 18 anni sono il 57% del totale, quelli sotto i 12 il 40%.

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"Molti bambini arrivano dal Congo già malnutriti. Poi c'è il problema dell'insicurezza alimentare all'interno dell'insediamento"
Justin Okello
Medico della clinica Nakivale Health Center III

Un modello a rischio

La continua crescita numerica degli insediamenti per i rifugiati mette a dura prova la tenuta del modello ugandese. Otto su quattordici superano i 100mila abitanti: A Nakivale, ad esempio, ci sono nuovi arrivi ogni settimana. Sulla lunga strada che taglia il campo sono fiorite attività economiche di ogni tipo, dai parrucchieri ai rivenditori di schede telefoniche, anche per iniziativa di cittadini ugandesi attirati dalle possibilità di fare affari.

Solo negli ultimi due anni, in Uganda, sono arrivati 225mila rifugiati, il 14% del totale. L’ultima crisi migratoria è coincisa con la guerra civile scoppiata in Sudan nel 2023 e da questo Paese arrivano più di un quarto dei rifugiati registrati nel 2024. Poi c’è l’alto tasso di natalità nei campi rifugiati, che contribuisce a renderli sempre più affollati: 4.700 bambini sono venuti al mondo dall’inizio del 2024, a Nakivale ne nascono 400 a settimana.

In un contesto segnato dalla crescita dei bisogni, diminuiscono invece gli aiuti. Il livello di assistenza umanitaria globale fornito all'Uganda è sceso nel corso degli anni e il gap tra quanto viene donato e quanto servirebbe è destinato ad aumentare.

Bruno Rotival, responsabile degli aiuti umanitari dell'Unione europea in Uganda
Bruno Rotival, responsabile degli aiuti umanitari dell'Unione europea in UgandaPeter Biro/Peter Biro

“Nel 2018 si spendevano circa 170 dollari all'anno per ogni rifugiato. Oggi, solo 85 dollari”, afferma Bruno Rotival, responsabile per l’Uganda di Echo, il dipartimento che si occupa degli aiuti umanitari della Commissione europea. A pesare è soprattutto il calo dei finanziamenti statunitensi, più che dimezzati negli ultimi due anni.

L’Ue ha invece stanziato 27,5 milioni di euro per il 2024, in leggero calo rispetto ai 30,5 del precedente. “Tutte le operazioni nel mondo soffrono di un deficit di finanziamenti. Le situazioni di crisi più acute ricevono fondi maggiori, mentre essendo l'Uganda un Paese più stabilizzato, forse risente un po' nella fornitura di aiuti umanitari”.

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L’Uganda, dice Rotival, è stato individuato dall’Ue come Paese in cui iniziare la transizione da un sistema basato sugli aiuti umanitari a uno basato sulla cooperazione allo sviluppo. Ma ancora non è il momento.

Mentre il governo di Kampala chiede più fondi ai partner internazionali per mantenere la sua politica aperta nei confronti dei rifugiati, la guerra in Ucraina ha complicato i piani europei, con un taglio del 20% sul budget umanitario complessivo dell’Unione per destinare i fondi al governo di Kiev. "Siamo fiduciosi sul fatto che riusciremo a mantenere tutto il nostro sostegno", assicura. Sa che ce n'è davvero bisogno.

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