Nucleare e trasparenza, un matrimonio impossibile?

Nucleare e trasparenza, un matrimonio impossibile?
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Di Andrea Neri
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Entro metà giugno l’Italia dovrebbe sapere dove stoccare i suoi rifiuti radioattivi. Ma tra ritardi tecnici, pressioni politiche e oggettive difficoltà tecnologiche, la sfida della trasparenza lanciata dall’operatore italiano Sogin resta ancora oggi per l’industria nucleare quella più complessa.

Deposito Nazionale: tanto vicino, ancora lontano

L’Italia affronta l’ennesimo, seppure risibile, ritardo nella scelta dei siti che potrebbero ospitare un deposito nazionale di rifiuti radioattivi, come richiesto dalla legge italiana e dalle direttive europee, finora disattese. Nonostante l’attualità riproponga il problema del rischio incidenti, con le foreste attorno a Chernobyl in fiamme per più di due giorni a 29 anni dall’esplosione del reattore numero 4 della centrale sovietica, oggi più che mai il caso dell’Italia dimostra che il vero problema irrisolto del ciclo nucleare nel suo complesso è rappresentato dalla gestione delle scorie e dei rifiuti radioattivi. Su questo tema e sulle condizioni dei siti italiani più in generale l’operatore Sogin ha lanciato la sfida della trasparenza. Una sfida molto complessa.

Il dilemma italiano: trovare il luogo in cui stoccare l'eredità nucleare

“Il deposito di Saluggia ospiterà soltanto i rifiuti provenienti dallo smantellamento del sito di Saluggia”. Le parole dell’amministratore delegato di Sogin Riccardo Casale, che euronews ha incontrato a Vercelli il 20 aprile, sono l’ennesima riconferma, da parte dell’azienda incaricata dal 2001 di gestire la messa in sicurezza degli impianti nucleari in Italia, che nessuno dei luoghi in cui attualmente si svolgono o si sono svolte in passato attività legate al nucleare potrà ospitare il deposito nazionale definitivo. E comunque Saluggia certamente no.

Sogin, Società Gestione Impianti Nucleari, erede di Enea e Nucleco S.p.a., aveva del resto fatto le stesse affermazioni a più riprese negli scorsi anni, per voce .Ma Saluggia rappresenta il tallone d’Achille più evidente per la gestione in sicurezza dei rifiuti radioattivi che, secondo le parole di Casale “sono pochi ma sono pericolosi, per l’ambiente e per i cittadini”.

Il centro Eurex di Saluggia, in Piemonte, ospita la maggior parte (circa il 90%) della totalità di rifiuti radioattivi presenti in Italia. Il centro si trova in un luogo che, contrariamente ad ogni logica e in base a scelte che risalgono a prima degli Anni Settanta, mai avrebbe dovuto ospitare un sito che produce rifiuti solidi, liquidi e gassosi radioattivi. A una manciata di chilometri dalla confluenza tra Dora Baltea e Po, vicino al Canale Cavour, a monte dell’acquedotto del Monferrato che serve un centinaio di comuni, nel cuore di una delle più importanti zone di produzione di riso d’Italia.

Saluggia è un memento evidente di quanto l’individuazione e la costruzione di un sito che ospiti in maniera sicura il materiale radioattivo sparso per il Paese sia una priorità, una necessità e un diritto dei cittadini. La costruzione del deposito doveva avvenire originariamente entro il 31 dicembre 2008. Si tratta ormai di un obbligo a livello europeo in base alla direttiva Euratom del 19 luglio 2011 per la gestione del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi. Ma le difficoltà tecnologiche da un lato e le lungaggini della politica dall’altro hanno costretto a continui rinvii. Con il risultato che, a quasi 30 anni dalla fine della produzione di energia nucleare in Italia, i rifiuti radioattivi restano stoccati in siti (circa 20) pensati per costituire una soluzione provvisoria.

Dettaglio della mappa del Piemonte. In evidenza i siti nucleari di Saluggia, a pochi chilometri da Torino, di Trino Vercellese, sulle rive del Po, e di Livorno Ferraris, dove si trova l'ex-centrale elettronucleare Galileo Ferraris © Andrea S. Neri 2015

L'iter amministrativo e i soggetti coinvolti

Lo scorso gennaio Sogin ha consegnato all’Ispra, l'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale , la proposta di Carta per le Aree Potenzialmente Idonee ad ospitare il Deposito Nazionale, sulla base dei criteri che la stessa Ispra aveva elaborato nel 2014. Da notare che si tratta di un documento nel quale vengono individuati i luoghi che genericamente rispettano criteri di idoneità formulati da Ispra e non di una indicazione del posto in cui sarà effettivamente costruito il deposito.

Nel corso del mese di aprile i Ministeri competenti, quello dello Sviluppo Economico e dell’Ambiente, avrebbero dovuto dare il nulla osta per la pubblicazione di tale mappa, permettendo l’avvio di una complicatissima e lunga fase di consultazione con tutti i soggetti interessati (dalle regioni ai comuni alle associazioni) che si dovrà concludere con la progettazione e la costruzione del deposito, operativo a partire da fine 2024.

Invece i Ministeri hanno rinviato la palla a Sogin, richiedendo ulteriori chiarimenti su aspetti specifici e dando all’azienda di Stato 60 giorni per integrare le osservazioni. Intervistati da euronews, sia il Direttore della Divisione Deposito Nazionale Fabio Chiaravalli che l’amministratore delegato Riccardo Casale, hanno osservato, a ragione, che un ritardo di 2 mesi rispetto a una questione che si trascina da decenni rappresenta un fatto risibile…

Ex-centrale elettronucleare Galileo Ferraris a Livorno Ferraris. La centrale non è mai entrata in funzione a seguito del referendum del 1987 - © Andrea S. Neri 2015

Il ruolo della politica

Tuttavia di fronte a questo ennesimo ritardo una domanda sorge spontanea. Come è possibile che il frutto delle ricerche e delle valutazioni, durate anni, e portate avanti da un lato dai tecnici di Sogin e dall’altro dall’organismo preposto, l’Ispra, siano in qualche modo oggetto di obiezione da parte dei Ministeri? Quali conoscenze o strumenti possono avere i Ministeri che già non siano in possesso dei tecnici e degli esperti Ispra?

Se si osserva il modo in cui in passato sono state gestite le vicende legate al nucleare in Italia e il pessimo rapporto – a torto o a ragione – che la popolazione ha con tali questioni, sorge il legittimo sospetto che nelle valutazioni basate sui freddi criteri tecnico-scientifici si intromettano elementi di opportunità o convenienza politica (o dei politici?). Scegliere quale regione e quale comune dovranno ospitare almeno per i prossimi 300 anni un deposito nucleare di superficie è oggettivamente una questione spinosa.

Interpellato da euronews a riguardo, il Ministero dello Sviluppo Economico ha sostanzialmente eluso la domanda, che pertanto era semplice e chiara: su quali elementi in particolare il Ministero ha ritenuto che fosse necessario attuare correzioni o precisazioni? La posizione ufficiale che ci è stata riproposta è quella di un comunicato emesso lo scorso 16 aprile: “Il Ministero dello sviluppo economico e il Ministero dell’ambiente […] hanno chiesto degli approfondimenti tecnici alla Sogin e all’Istituto superiore per la protezione ambientale (ISPRA) a proposito della Carta delle aree potenzialmente idonee (CNAPI) ad ospitare il deposito nazionale dei rifiuti nucleari. La richiesta di informazioni tecniche è stata inoltrata […] per avere tutti gli elementi necessari ad esprimere il nulla osta sulla Carta delle aree che nei mesi scorsi era stata esaminata anche dall’Istituto superiore per la protezione ambientale. Sogin ed Ispra dovranno fornire gli elementi richiesti dai Ministeri entro 60 giorni”. Punto.

Del resto il sospetto e anzi la certezza che la politica in Italia metta lo zampino su questioni che dovrebbero competere gli specialisti (benché ovviamente in un quadro di progettualità politica) non è una malevola insinuazione. A maggio 2014 'Il Fatto Quotidiano' aveva riportato le affermazioni del Presidente di Sogin, Giuseppe Zollino, secondo il quale la pubblicazione della guida dei criteri formulati da Ispra, all’epoca già pronta da almeno 3 mesi, veniva rimandata per motivi politico-elettorali.

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Il centro Eurex di Saluggia. I tecnici Sogin manipolano materiali radioattivi. Immagine fornita da Sogin S.p.a.

Che cos'è e come sarà fatto il deposito nazionale?

In Italia la produzione di energia dall’atomo è stata interrotta con il referendum del 1987, organizzato sull’onda dello shock causato dall’incidente di Chernobyl. Allora, a differenza di quanto fatto ad esempio in Germania dopo il disastro di Fukushima, si decise non già un’uscita progressiva dal nucleare, permettendo di portare a termine il ciclo produttivo delle centrali termonucleari presenti nel Paese (Trino, Caorso, Latina, Garigliano) bensì di spegnere subito i reattori. Dopo l’incidente di Fukushima e nonostante il (dilettantistico) tentativo del governo di allora di rilanciare il nucleare in Italia, la scelta di non riavviare una stagione nucleare nel Paese è stata confermata da un secondo referendum, a giugno 2011.

Dal 1987 ad oggi i rifiuti radioattivi frutto dell’intero ciclo produttivo sono stati stoccati nei rispettivi siti. Il combustibile esausto presente nei reattori delle centrali italiane (per semplificare, le barre di uranio) è successivamente stato inviato in Francia (industria Cogema-Areva NC, a La Hauge) e in Inghilterra (sito di Sellafield) per essere “riprocessato”. Una scelta quasi obbligata ma niente affatto esente da critiche e della quale parleremo più avanti. Questi materiali sono i cosiddetti rifiuti ultimi. Rappresentano solo il 4% della totalità ma racchiudono il 99% della radioattività. Sono rifiuti di terza categoria, ad alta attività e lunga vita: la loro radioattività si dimezza in un tempo calcolabile in decine e in alcuni casi centinaia di migliaia di anni.

Torneranno in Italia tra il 2019 e il 2025 in parte cementati, in parte sotto forma di grossi “bossoli” vetrificati che “intrappolano” la radioattività, ma dovranno trovare una collocazione definitiva. In molti dei Paesi che hanno optato per il nucleare la scelta è stata (o sarà) quella dei depositi geologici, ad una profondità di almeno 500 metri. Ma su questo punto non esiste, ad oggi, una posizione univoca e scientificamente condivisa a livello internazionale.

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Centrale termonucleare Enrico Fermi di Trino Vercellese. Interno di uno degli edifici per lo stoccaggio di materiali. La centrale è in fase di smantellamento ma nelle vasche di raffreddamento sono ancora immerse circa due tonnellate di barre di combustibile © Andrea S. Neri 2015

Il Deposito Nazionale di cui stiamo parlando ora è invece un deposito di superficie, destinato a stoccare i rifiuti di corta e media vita e di debole o media attività. Tuttavia, in attesa di una futura collocazione adeguata, anche i rifiuti di terza categoria saranno posizionati in una sezione specifica del nostro deposito di superficie, secondo quanto confermato dall’ad di Sogin Riccardo Casale. Si tratta di un luogo che dovrà custodire in sicurezza i rifiuti, evitando la dispersione di radionuclidi nell’ambiente, per una durata di almeno 300 anni. Intervistato da euronews, Fabio Chiaravalli, responsabile Sogin per il Deposito Nazionale e Parco Tecnologico, ha descritto la natura del progetto. Quando sarà terminato, il deposito occuperà un’area di circa 150 ettari, “un’area né grande né piccola” dice Chiaravalli. “Si troverà lontano sicuramente dai grossi corsi d’acqua, si troverà sicuramente lontano dal mare, si troverà sicuramente in zone non ad alta quota”.

Chiaravalli descrive la struttura come un gigantesco sistema di scatole cinesi che, con 4 diversi livelli di protezione al centro dei quali si trovano i fusti con il materiale radioattivo, permette di confinare il rischio radiologico. Il modello è lo stesso adottato da altri Paesi europei come la Francia o la Spagna. A differenza di questi Paesi, il nostro deposito sarà annesso al cosiddetto Parco Tecnologico. Secondo la descrizione del sito internet Sogin, “un centro di ricerca, aperto a collaborazioni internazionali, dove svolgere attività nel campo del decommissioning, della gestione dei rifiuti radioattivi, e dello sviluppo sostenibile”. Un piano ambizioso ed interessante ma che, allo stato attuale, resta nulla di più che un progetto a grandi linee.

Scorie, il ruolo centrale della Francia. Ma perché tanta fiducia?

Al mondo esistono soltanto 4 Paesi che hanno intrapreso la strada del riprocessamento delle scorie radioattive: il Regno Unito, il Giappone, la Russia. E soprattutto la Francia che nel settore occupa un ruolo di leader mondiale attraverso il suo operatore, il gigante del nucleare Areva. Francia e Regno Unito, con i rispettivi stabilimenti industriali de La Hague e di Sellafield, sono partner fondamentali di Sogin, ma più in generale dell’Italia. Da più di 25 anni infatti una serie di contratti intergovernativi ha permesso al nostro Paese di inviare all’estero i materiali più pericolosi generati dal funzionamento dei reattori (plutonio, attinidi minori come americio, curio, nettunio, ecc.) perché vengano ritrattati.

Nell’industria de La Hague, Areva mette in opera complesse operazioni chimiche di ritrattamento del combustibile irraggiato. Processi che, nella sua politica di comunicazione, vengono descritti come un vero e proprio “riciclaggio”. Da cui la definizione del ciclo nucleare come un ciclo chiuso, in cui tutto verrebbe riutilizzato.

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Senza scendere qui nei dettagli, basti dire che già dal 2010 un rapporto dell’HCTISN, l'Alto Comitato per la Trasparenza e l'Informazione sulla Sicurezza Nucleare ha fatto chiarezza su questi temi: a fronte di un “riciclaggio” al 96% dichiarato da Areva, la stessa Edf è stata costretta ad ammettere che la parte di combustibile re-immesso nel ciclo dopo il riprocessamento non supera il 12%. Il resto viene stoccato in vista di un futuro utilizzo nei reattori di quarta generazione che, nella migliore delle ipotesi, saranno una realtà industriale non prima del 2040. Di fatto, la principale attività de La Hague è da un lato, le produzione di plutonio estratto dal combustibile esausto (10 kg su una tonnellata di materiale, ovvero l’1%), dall’altro la produzione di uranio da riprocessamento (URT). Per quanto riguarda il plutonio, il suo più noto impiego è quello per la fabbricazione di armi nucleari. È questa una delle ragioni per cui gli Stati Uniti non hanno mai optato per il riprocessamento, considerandolo la strada maestra per la proliferazione. In secondo luogo il plutonio ha effettivamente un parziale riutilizzo per la produzione del cosiddetto Mox: una miscela di uranio impoverito, plutonio e altri materiali con cui sono in parte alimentati 22 dei 58 reattori del parco nucleare francese.

Ma è l’uranio da riprocessamento il prodotto principale delle operazioni effettuate a La Hague: 950 kg su una tonnellata, ovvero il 95%. È sì riutilizzabile, ma solo dopo una nuova fase di arricchimento. Operazione che, tra il 1994 e il 2011, la Francia non era in grado di effettuare. Per tutti quegli anni l’uranio da riprocessamento veniva inviato in Siberia dove, sulla base di un contratto con la compagnia russa Tenex, veniva in minima parte arricchito e rispedito in Francia e, per oltre l’80%, stoccato in depositi a cielo aperto nelle foreste attorno alla città di Tomsk.

Uno dei convogli per il trasferimento dei rifiuti radioattivi verso la Francia in vista del riprocessamento. Materiale che dovrà tornare in Italia entro il 2019. Immagine fornita da Sogin S.p.a.

Tutto questo ha un costo. Economico, ovviamente: per la sola industria de La Hague è di circa 1 miliardo di euro all’anno. A fine anni 2000 non per nulla il gestore, Areva, e il suo principale cliente, Edf (produttore e fornitore di elettricità francese) hanno avuto un duro braccio di ferro per la revisione dei loro contratti. Da allora Edf tenta sostanzialmente di ottenere condizioni più vantaggiose per il riprocessamento del combustibile nucleare e di aver maggior voce in capitolo rispetto al programma di investimenti dell’industria.

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Ma il riprocessamento ha soprattutto un costo ambientale. Ogni giorno di attività produttiva de La Hague, implica lo sversamento nel canale della Manica di circa 400 m³ di rifiuti liquidi radioattivi. In un anno sono l’equivalente di 33 milioni di fusti da 200 L. Va qui ricordato che tutti i Paesi al mondo dotati di industrie nucleari, a partire dagli Anni Cinquanta hanno gestito scorie e rifiuti in modo molto semplice: gettando in mare i fusti. Questa pratica è stata oggetto di una moratoria a partire dal 1983 ed è vietata da una convenzione Onu soltanto dal 1993. Il tutto esclusivamente a seguito della pressione esercitata con le campagne di Greenpeace. Paradossalmente, lo sversamento di liquidi in mare direttamente dalla terra ferma resta legale.

Le emissioni gassose del sito de La Hague rappresentano un problema altrettanto grave: gas come il cobalto 60 o il krypton 85, la cui radioattività si dimezza in 10 anni, continuano ad accumularsi nell’atmosfera da mezzo secolo a questa parte creando una condizione che il laboratorio indipendente francese della CRIIRAD ha comparato, ancora nel 2009, a un incidente nucleare permanente, in particolare per le popolazione locali. Infine, già una quindicina d’anni fa, è stata dimostrata una significativa contaminazione da iodio 129 dei territori circostanti La Hague. Lo iodio 129 è un elemento la cui radioattività decade nel corso di 15 milioni di anni circa. Per un quadro completo delle informazioni sintetizzate in questo paragrafo, rimando all’inchiesta approfondita condotta da Laure Noualhat e pubblicata nel 2009 (Déchets. Le cauchemar du nucléaire, Editions du Seuil/Arte éditions).

Il centro Eurex di Saluggia, in provincia di Vercelli, dove sono stoccati in via provvisoria circa il 90% dei rifiuti radioattivi presenti in Italia © Andrea S. Neri 2015

I punti critici in Italia e la posizione degli ambientalisti

In Italia una delle regioni più direttamente coinvolte nella problematica dello stoccaggio dei rifiuti nucleari è il Piemonte. Qui si trovano l’ex-centrale termonucleare Enrico Fermi di Trino (che euronews ha visitato il 20 aprile), l’impianto Fabbricazioni Nucleari di Bosco Marengo, il centro Eurex di Saluggia. Senza contare la ex-Centrale Galileo Ferraris, progettata come centrale elettronucleare ma mai entrata in funzione come tale a seguito del referendum del 1987. Oggi le sue torri di raffreddamento svettano nelle valli piemontesi. Chiusa dal 2009, è una vera e propria cattedrale nel deserto.

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A fronte dei lavori per l’aumento della capacità di stoccaggio del deposito D2 a Saluggia, e del mantenimento nelle vasche di raffreddamento di materiale irraggiato nella centrale di Trino, il timore degli ambientalisti è sostanzialmente che i rifiuti radioattivi restino in loco a tempo indeterminato. “Se i nuovi depositi nucleari di Trino e Saluggia saranno realizzati, siamo convinti che i rifiuti radioattivi non andranno via mai più da questi siti e pertanto il Vercellese e tutta la pianura padana correranno un rischio massimo e indebito” ha detto ad euronews Gian Piero Godio, ambientalista e responsabile di Legambiente Piemonte per l'energia.

Euronews/Aprile 2011: "Nucleare in Italia, il caso di Caorso, euronews. Reportage girato nel 2011 dopo l'incidente di Fukushima e poche settimane prima dal referendum italiano"

Il rischio è però quello di fare dell’allarmismo ingiustificato. Ci sono mai stati incidenti o pericolo per la salute dei cittadini in questi siti? Gli episodi sono limitati ma i precedenti giustificano in parte la diffidenza degli ambientalisti. “Rilasci non intenzionali di sostanze radioattive nell’ambiente sono avvenuti, e lo si è abitualmente saputo dopo giorni, mesi o anni, a seconda dei casi” afferma Godio. “Due esempi importanti sono il rilascio di trizio radioattivo avvenuto negli anni ’60 a seguito di un incidente al corpo del reattore di Trino, di cui ancora oggi non si sa quasi nulla e la perdita nel terreno e poi nella falda acquifera superficiale verificatasi nella piscina dell’impianto Eurex di Saluggia, di cui si è venuti a conoscenza pubblica solo dopo due anni, e non per merito di Sogin”. L’incidente a Saluggia cui Godio fa riferimento risale al 2004 ed è stato reso pubblico nel 2006. Riguardo all’incidente al reattore di Trino, possiamo qui soltanto riportare che nel 2011 euronews aveva chiesto delucidazioni a Davide Galli, fisico e responsabile Sogin per la disattivazione centrali e impianti, il quale aveva escluso che tale incidente fosse mai avvenuto.

Ma ancora una volta, e al di là dei possibili incidenti, il vero problema è lo stesso di impianti come quello de La Hague: “Ci sono i rilasci intenzionali di materiali radioattivi in aria e nel fiume, che sono avvenuti, e ancora avvengono, nel rispetto di prescrizioni molto permissive, a danno dell’ambiente e della salute” afferma Gian Piero Godio. “In questo campo i vari impianti nucleari di Saluggia hanno avuto ed hanno un’autorizzazione allo scarico di routine di rifiuti radioattivi in aria e in acqua che è la più grande di tutta Italia”.

Anche se non lo sanno, Sogin e gli ambientalisti stanno dalla stessa parte

La priorità per le associazioni, quelle piemontesi ma tutte le associazioni ambientaliste in Italia, è annullare il rischio radioattività nel territorio. La priorità per l’azienda di Stato è costruire un deposito nazionale. Di fatto, lo scopo è unico. Da un lato far uscire l’Italia da una situazione nella quale permangono i dubbi sulla sicurezza. Dall’altro la capacità tecnica di garantire tale sicurezza è fortemente limitata dal fatto che i siti non sono idonei e hanno caratteristiche progettuali spesso ampiamente desuete.

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Del resto in tutti i Paesi che l’Italia ha scelto come esempio da seguire, i depositi di superficie per lo stoccaggio di rifiuti di bassa e media attività e di media vita rappresentano il punto di minore problematicità. L’esempio che risuona come un mantra nelle parole dei manager e dei dirigenti Sogin è di fatto un argomento, fino a prova contraria, piuttosto solido: il deposito nazionale francese Andra, nel dipartimento dell’Aube, si trova in Champagne-Ardenne, la regione di produzione dello Champagne. Ed è grande circa 10 volte rispetto alla capacità che dovrà avere la struttura italiana, adeguata secondo l’ad Sogin Riccardo Casale, allo stoccaggio di circa 100.000 m³ di materiale.

Ma questo tipo di dibattito, e non solo in Italia, è storicamente polarizzato.

Da un lato c‘è l’industria di settore, che vede nell’atomo una sorta di miracolo per la produzione infinita di energia a basso costo. Un fatto la cui falsità dovrebbe ormai essere evidente. Basti un riferimento ai costi, ritardi e problemi tecnici del cantiere più all’avanguardia a livello internazionale, quello francese dell’Epr di Flamanville: inizio lavori nel 2007 per una consegna nel 2012, costo previsto di 3,3 miliardi di euro. Ad oggi, la consegna è slittata a non prima del 2018 con un costo che ha già superato gli 8,5 miliardi di euro. Il 4 maggio è poi atteso il responso delle verifiche sulle anomalie constatate dall’Asn (Autorità di Sicurezza Nucleare) sulla composizione dell’acciaio del serbatoio del reattore.

Dall’altro lato persiste una visione “antinuclearista” radicale che ha sempre teso a sventolare la catastrofe di Chernobyl come se quello degli incidenti fosse il primo dei problemi legati al nucleare. Ovviamente il carattere catastrofico e per di più irreversibile dei vari incidenti nucleari noti (Chernobyl e Fukushima) e meno noti (da Hanford negli Usa fino a Mayak in ex-Urss) resta un comprensibile elemento di diffidenza. Ma nel contesto attuale, in Italia si presenta oggi una possibilità unica.

La trasparenza, fatto inedito nella storia del nucleare, può diventare il punto di forza in Italia

L’industria nucleare nasce come industria militare e la segretezza che caratterizza le attività militari resta uno degli elementi tipici del settore. Nell’era della comunicazione rapida, di internet e dei social network, anche i colossi come la francese Areva sono costretti, sempre e solo sotto la pressione di ong come Greenpeace, ad arrendersi al gioco della trasparenza. Ma per la Francia gli interessi industriali hanno un peso tale che l’esercizio d’equilibrismo si rivela spesso quasi impossibile. Due esempi: l’uranio riprocessato (URT) e stoccato nel sito si Pierrelatte (21.180 tonnellate nel 2007, 36.000 tonnellate nel 2020 e 49.000 tonnellate all’orizzonte 2030) il cui effettivo riutilizzo in un lontano futuro dipende da un vasto numero di variabili, non è più un “rifiuto”, ma una “materia valorizzabile”; le emissioni radioattive de La Hague vengono puntualmente pubblicate, ma i radionuclidi che l’industria non è in grado di filtrare (o che sceglie di non filtrare perché i costi sono troppo elevati) non vengono rendicontati. Il livello di inquinamento ambientale gestito dagli organismi dello Stato francese è di fatto il frutto di un compromesso tra le richieste dell’industria su base annua e le effettive necessità legate al rischio ambientale e sanitario.

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In Italia, a discapito di un passato recente fatto di sprechi economici, inefficienza operativa e copertura di incidenti più o meno gravi, Sogin è un soggetto che occupa una posizione completamente diversa se non diametralmente opposta. L’azienda è il solo strumento di cui lo Stato e dunque tutti i cittadini italiani dispongono per gestire i rifiuti radioattivi in Italia, che si tratti dell’eredità del ciclo di produzione energetica, dei rifiuti legati alla ricerca o dei rifiuti legati alle attività mediche (questi rappresenteranno circa il 20% delle complessive 90/100.000 tonnellate di rifiuti destinati al deposito nazionale). Soprattutto Sogin è un’azienda che deve gestire tali problematiche al di fuori di un ciclo di produzione energetica. Tradotto, non deve fare profitti, ma ottenere dei risultati su due fronti specifici: lo smantellamento degli impianti e la costruzione del deposito nazionale.

Centrale termonucleare Enrico Fermi di Trino Vercellese. Ripresa effettuata dalla SS 31/bis © Andrea S. Neri 2015

I ritardi sono certo eclatanti. Un solo esempio: nel 2011 i piani prevedevano che l’ultimo 2% di combustibile nucleare irraggiato ancora presente in Italia fosse spedito in Francia per il riprocessamento. Ma quel materiale non si è ancora mosso. Complice anche la diffidenza della stessa Francia che a settembre 2014 ha bloccato il trasporto della nostra “spazzatura nucleare” verso La Hague, a causa della sfiducia nelle capacità dell’Italia di dotarsi del deposito nazionale nei tempi stabiliti. Come Fabio Chiaravalli ha confermato ad euronews, a seguito del vertice intergovernativo tenutosi a Parigi, la situazione è stata sbloccata e i trasporti dovrebbero riprendere nei prossimi mesi.

Ma dal punto di vista della trasparenza i segnali positivi inviati da Sogin non mancano: martedì 28 aprile, per la prima volta in assoluto, i vertici dell’azienda hanno preso parte ad una riunione pubblica a Trino, sede della centrale Enrico Fermi, per un dialogo con la popolazione, l’amministrazione locale e le associazioni ambientaliste. Il 16 e 17 maggio, per la prima volta in Italia, Sogin ha lanciato l’operazione ‘Open Gate’ aprendo alla cittadinanza i siti delle centrali in fase di smantellamento, Trino, Caorso, Latina, Garigliano. Ma l’elemento di maggiore interesse è l’avvio di un master che Sogin promuove in collaborazione con l'Università del Piemonte Orientale (UPO) e presentato a Vercelli il 20 aprile. I temi sono quelli del decommissioning, della bonifica del territorio, del rischio radiologico e dei temi legati in generale alla gestione del nucleare. Se il corso di studi sarà portato avanti con professionalità e totale indipendenza degli insegnamenti, l’iniziativa

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dovrebbe essere un faro nel deserto italiano: investire sulla formazione e sulla trasmissione delle conoscenze. Nonostante il giudizio in merito non possa che essere positivo, bisogna registrare due occasioni mancate: non esisterà un esame di ammissione al corso di studi, al quale si accederà per semplice presentazione di titoli. Secondo, il costo di iscrizione di 3.500 euro sarà a carico dei partecipanti, salvo conferire “ai due studenti più meritevoli” una borsa di studio che, a posteriori, coprirà le spese.

Centrale termonucleare Enrico Fermi di Trino Vercellese. Dettaglio del pannello comandi della sala macchine © Andrea S. Neri 2015

Una riflessione conclusiva

Tentando di operare in condizioni di trasparenza nel settore del nucleare, l’Italia (primo Paese al mondo ad aver abbandonato questa tecnologia) si addentra in un territorio completamente ignoto per non dire rivoluzionario per questo tipo di industria. Il tentativo di nascondere alla società civile i rischi legati alla presenza di sostanze nocive per l’ambiente e la salute ha avuto, nei decenni, il risultato opposto a quello desiderato. Tacere per fare accettare significa soltanto contribuire allo sviluppo fino al parossismo della ben nota sindrome Nimby (Not in my back yard, “non nel mio cortile”). Con il risultato che ad oggi i “cortili” cosparsi di rifiuti radioattivi in Italia sono, invece che uno soltanto, almeno una ventina. Quando, tra meno di due mesi, sarà finalmente pubblicata la mappa dei siti che potrebbero ospitare il deposito nazionale, tutte le parti in causa dovrebbero tenere a mente la frase dello scrittore naturalista Jean Rostand con la quale Laure Noualhat apriva il suo libro-inchiesta sui rifiuti radioattivi: “L’obbligo di subire ci da il diritto di sapere”.

Nota: Parte delle fotografie pubblicate in questo servizio sono state scattate al di fuori delle aree di proprietà di Sogin o comunque da punti in cui il limite di tale proprietà non viene segnalato, né da barriere (muri, reti,

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sbarre o catene) né da pannelli. Le riprese all’interno della centrale nucleare di Trino sono state effettuate il 20 aprile durante una visita sotto la supervisione di un tecnico Sogin. Il 18 aprile, mentre mi accingevo a fare alcune riprese all’esterno della centrale di Trino, sono stato fermato dal servizio di sicurezza attivo nel sito e dalla Guardia di Finanza. Il sistema si è rivelato efficiente, certamente dal punto di vista amministrativo. Sul fatto che le misure messe in opera siano efficaci dal punto di vista concreto della sicurezza (che è il motivo principale per cui sono in vigore) devo sospendere il giudizio dal momento che non mi stavo avvicinando alla centrale con l’intenzione di compiere un attentato. Del resto sul capitolo sicurezza Sogin deve fare i conti con una legislazione che nominalmente risente ancora dell’effetto “11 settembre” ma che, dal punto di vista dei fondi messi a disposizione dalla Stato, non può essere all’altezza delle richieste.

Nella foto del titolo: Il centro Eurex di Saluggia, in provincia di Vercelli, dove sono stoccati in via provvisoria circa il 90% dei rifiuti radioattivi presenti in Italia. All'orizzonte sono visibili le Alpi piemontesi © Andrea S. Neri 2015

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