Corte dei diritti umani, le elezioni in Bosnia-Erzegovina non sono democratiche e amplificano le divisioni etniche

Un uomo bosniaco vota in un seggio elettorale a Sarajevo, in Bosnia, domenica 2 ottobre 2022\.
Un uomo bosniaco vota in un seggio elettorale a Sarajevo, in Bosnia, domenica 2 ottobre 2022\. Diritti d'autore Armin Durgut/Copyright 2022 The AP. All rights reserved.
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Di Mared Gwyn Jones
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Questo articolo è stato pubblicato originariamente in inglese

Secondo la Corte europea dei diritti umani, le elezioni in Bosnia-Erzegovina - un Paese candidato all'Ue - sono antidemocratiche e rafforzano la posizione privilegiata dei gruppi etnici dominanti.

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La causa legale è stata portata alla Corte di Strasburgo da Slaven Kovačević, politologo e consigliere di un membro della presidenza della Bosnia-Erzegovina, che ha sostenuto di non essere realmente rappresentato.

E la Corte gli ha dato ragione, descrivendo il Paese di 3,2 milioni di abitanti come una "etnocrazia" in quanto la rappresentanza etnica è "più rilevante di considerazioni politiche, economiche, sociali, filosofiche e di altro tipo" nel sistema politico del Paese.

La Bosnia-Erzegovina ha ottenuto lo status di candidato all'Ue nel dicembre dello scorso anno. Per questo, in risposta alla sentenza, una portavoce della Commissione europea ha dichiarato che il Paese deve attuare le riforme per garantire l'uguaglianza e la non discriminazione dei suoi cittadini, "al fine di avviare i negoziati di adesione all'Ue".

Diritto di voto "limitato"

La Costituzione della Bosnia-Erzegovina conferisce privilegi politici a bosniaci, croati e serbi - i cosiddetti "popoli costituenti" - che sono equamente rappresentati nella Camera dei Popoli, composta da 15 seggi, e nella presidenza tripartita. Ma le persone non appartenenti ai tre gruppi etnici dominanti non possono essere elette in queste due istituzioni.

Anche la composizione territoriale del Paese determina i diritti degli elettori. Solo chi risiede nella Federazione di Bosnia-Erzegovina può eleggere i membri bosniaci e croati della Camera dei Popoli e della presidenza, mentre i membri serbi sono eletti dai residenti della Repubblica Srpska, dove l'etnia serba costituisce la maggioranza.

Slaven Kovačević - che ha dichiarato di non appartenere ad alcun gruppo etnico e che vive nella capitale del Paese, Sarajevo, che fa parte della Federazione di Bosnia ed Erzegovina - ha sostenuto di non aver potuto votare per il candidato che meglio rappresentava le sue idee politiche alle elezioni legislative e presidenziali del 2022, poiché la sua scelta era limitata ai candidati bosniaci e croati.

La Corte ha ritenuto che questi requisiti territoriali ed etnici costituissero un trattamento discriminatorio.

Le riforme sono una "priorità assoluta"

Una portavoce della Commissione europea, in riferimento alla sentenza, ha ricordato che la Bosnia-Erzegovina è chiamata "a soddisfare le 14 priorità fondamentali individuate nel parere della Commissione del 2019 sulla sua domanda di adesione all'Unione, al fine di avviare i negoziati di adesione all'Ue".

La portavoce ha fatto riferimento in particolare alla quarta priorità, che richiama la Bosnia-Erzegovina a migliorare radicalmente il proprio quadro normativo, anche a livello costituzionale, per "garantire l'uguaglianza e la non discriminazione dei cittadini".

"Il Consiglio europeo ha inoltre invitato i leader a concludere urgentemente le riforme costituzionali ed elettorali rimaste in sospeso, che dovrebbero essere portate avanti con la massima priorità", ha ricordato ancora la portavoce.

Le richieste di riforme elettorali si sono moltiplicate negli ultimi dieci anni, dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo sul caso Sejdić e Finci, nel 2012, che per la prima volta ha fatto luce sulla natura discriminatoria del sistema elettorale in Bosnia-Erzegovina.

Intanto, la Commissione dovrebbe pubblicare a ottobre la relazione che valuta i progressi dei Paesi candidati nel loro percorso di adesione all'Ue.

Mentre il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha lanciato l'idea della fine del decennio come scadenza per l'allargamento, dichiarando che l'Ue deve essere pronta ad accettare nuovi candidati entro il 2030.

"È un obiettivo ambizioso, ma necessario. Dimostra che facciamo sul serio", ha precisato Michel.

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