Arte 2025, dai manifesti della Belle Époque alle performance radicali: mostre che hanno ridefinito i limiti del dibattito e aperto nuovi dialoghi
Se il 2025 ha dimostrato qualcosa, è che il baricentro del mondo dell’arte si sta spostando. Certo, Parigi ha sfornato mostre evento: David Hockney ha quasi fatto commuovere alcuni critici alla Fondation Louis Vuitton, mentre il Musée d'Orsay ci ha ricordato perché i manifesti della Belle Époque contano ancora.
Ma alcuni dei momenti più interessanti dell’anno sono arrivati lontano dalle capitali artistiche tradizionali: l’Asia centrale è emersa con istituzioni ed eventi capaci di cambiare le regole, e Cipro ha lanciato la sua prima fiera d’arte internazionale. Dalla teatralità senza paura di Leigh Bowery alla Tate Modern alle confessioni crude di Tracey Emin a Firenze, sono state mostre che hanno imposto attenzione, non solo per ciò che esponevano, ma per come hanno ridefinito il dibattito sul posto dell’arte nel mondo.
L’arte è in strada al Musée d’Orsay
L’immersione del Musée d’Orsay nella cultura del manifesto della Belle Époque è risultata sorprendentemente attuale per una mostra sulla pubblicità ottocentesca. Riunendo quasi 230 opere – Toulouse-Lautrec, Mucha, Chéret e i Nabis – la rassegna ha mostrato come i manifesti illustrati trasformarono Parigi in un parco visivo. A renderla convincente è stata l’attenzione alla strada come galleria e campo di battaglia: le colonne Morris e i sandwich men non erano semplici note pittoresche, erano i social media del loro tempo. La mostra ha inquadrato il manifesto come una democratizzazione radicale, un “arte per tutti” prima ancora che qualcuno parlasse di accessibilità con gli hashtag. Organizzata con la Bibliothèque nationale de France, è stata la prima esposizione di queste dimensioni dedicata ai “Maestri del Manifesto” e ha offerto argomenti solidi per prendere sul serio l’arte commerciale.
Biennale di Bukhara
La scena dell’arte contemporanea dell’Asia centrale si è presentata con serietà quando la prima Biennale di Bukhara ha trasformato le madrase e i caravanserragli della città uzbeka in spazi espositivi. Curata da Diana Campbell e intitolata "Recipes for Broken Hearts", la rassegna di dieci settimane ha affiancato oltre 70 artisti internazionali ad artigiani uzbeki, insistendo su un riconoscimento paritario per entrambi. Il concept, nato dal mito di Ibn Sina che inventa il plov per curare un principe innamorato, ha interrogato in modo intelligente a chi spetti il merito nelle pratiche collaborative. Invece di trattare l’architettura di Bukhara, riconosciuta dall’UNESCO, come semplice sfondo, la biennale ha coinvolto residenti e visitatori in conversazioni su patrimonio e identità contemporanea. Con Antony Gormley e Slavs and Tatars accanto ai produttori locali, e un dialogo autentico al posto del tokenismo, ha offerto un modello fresco per le biennali internazionali in un’epoca di stanchezza da eventi.
Leigh Bowery! alla Tate Modern
La celebrazione di Leigh Bowery alla Tate Modern ha rappresentato un riconoscimento tardivo per un artista refrattario a ogni categoria. L’esposizione ha attraversato performance, club culture, moda e body art, perché Bowery non vedeva confini fra questi ambiti. I suoi iconici “Look” (chiamarli costumi sarebbe riduttivo) sono stati presentati accanto alle collaborazioni con tutti, da Lucian Freud a Michael Clark, mostrando come Bowery abbia ripensato l’abbigliamento come scultura e il proprio corpo come strumento mutevole. Ne è emerso insieme un ritratto della nightlife londinese degli anni Ottanta e Novanta e una riflessione seria su come il suo approccio senza timori a genere, sessualità ed estetica continui a risuonare. La mostra non ha ripulito le provocazioni né gli eccessi; li ha celebrati per come hanno infranto le convenzioni creando una cultura visiva davvero innovativa.
VIMA Art Fair
Cipro ha avuto il suo momento sulla scena artistica globale con VIMA, la prima fiera internazionale di arte contemporanea dell’isola. Allestita in una ex cantina di Limassol affacciata sul mare, è risultata piacevolmente intima rispetto all’estenuante circuito Basilea, Miami e Parigi. Ventisette gallerie da Cipro, Grecia, Libano, EAU, Nigeria, Regno Unito e oltre hanno sostenuto l’idea di Cipro come crocevia vitale tra Europa, Medio Oriente e Africa. Il parterre era notevole – The Breeder da Atene, Tiwani Contemporary, The Third Line da Dubai – ma ciò che contava era il dialogo autentico che VIMA ha attivato tra ecosistemi regionali. Il grande progetto del curatore Ludovic Delalande, "La posterità del sole", ha dato un’ancora concettuale, mentre incontri e performance hanno mantenuto alta l’energia. Per un debutto, ha colpito ben oltre la sua categoria.
David Hockney, 25 alla Fondation Louis Vuitton
Annunciata come centrata sugli ultimi 25 anni, la mostra ha sfrontatamente risalito il tempo fino al 1955, iniziando con il ritratto del padre contabile dipinto da Hockney diciottenne. Oltre 400 opere hanno riempito l’edificio della Fondation Louis Vuitton firmato da Frank Gehry (l’architetto aveva anche un suo ritratto in mostra), spaziando dalla pittura ai lavori digitali su iPhone e iPad, fino a installazioni video immersive. Quello che poteva sembrare compiaciuto ha invece mostrato un artista ancora sperimentale, ancora curioso. I prestiti internazionali erano clamorosi, da istituzioni da Oslo a Melbourne, e si è vista l’implicazione personale di Hockney in ogni dettaglio. È stata la più grande mostra dell’artista di sempre, e qualcosa di più: un critico ha detto perfino di essersi commosso fino alle lacrime.
Apertura dell’Almaty Museum of Arts
Insieme alla Biennale di Bukhara, settembre ha portato un altro momento significativo per l’arte contemporanea dell’Asia centrale con l’apertura dell’Almaty Museum of Arts. Finanziato dall’imprenditore Nurlan Smagulov e progettato da Chapman Taylor con elementi che richiamano le montagne del Tian Shan, ALMA è diventato il primo museo privato di arte moderna e contemporanea della regione. La mostra inaugurale ha accostato una collezione di 700 opere kazake e dell’Asia centrale a una retrospettiva personale di Almagul Menlibayeva, la cui esplorazione di mito, memoria e geografia ha dato il tono. Le commissioni all’aperto di Yinka Shonibare e Jaume Plensa, e le Artist Rooms con Richard Serra e Yayoi Kusama, hanno mostrato un’ambizione che va oltre il focus regionale. La direttrice artistica Meruyert Kaliyeva lo ha presentato come un luogo che unisce generazioni di artisti, da chi rischiava persecuzioni sotto il regime sovietico ai protagonisti di oggi.
Encounters: Giacometti, Barbican
La serie annuale del Barbican che affianca Alberto Giacometti a scultori contemporanei è apparsa davvero generativa, non un espediente. Organizzata con la Fondation Giacometti, è partita con Huma Bhabha, poi con Mona Hatoum (Lynda Benglis è attesa nel 2026), creando dialoghi intergenerazionali su morte, frammentazione, memoria e trauma. Le figure allungate del dopoguerra di Giacometti – la sua risposta alla devastazione della Seconda guerra mondiale e una meditazione sulla forma umana – hanno trovato una risonanza reale con artisti di oggi alle prese con le proprie crisi. Il nuovo spazio, raccolto, ha favorito uno sguardo ravvicinato anziché l’effetto da blockbuster.
Tracey Emin: Sex and Solitude a Palazzo Strozzi
La prima grande mostra istituzionale italiana di Tracey Emin ha portato la sua intensità confessionale a Palazzo Strozzi, a Firenze. A cura di Arturo Galansino, "Sex and Solitude" ha riunito oltre 60 opere tra pittura, disegno, ricamo, neon e scultura. Il contesto contava: le sue esplorazioni crude del corpo e del desiderio hanno creato una frizione provocatoria con l’eredità rinascimentale di Firenze, collocandola al tempo stesso nella ricca storia artistica della città. Opere che parlano di amore, perdita, malattia e guarigione sono apparse urgenti, esplicite e insieme vulnerabili. Pur coprendo un arco temporale ampio, Emin ha sottolineato in un’intervista prima dell’apertura che non si trattava di una "survey". "Non mi piace fare survey o retrospettive. Mi piace vivere ora", ha detto.
Kiefer / Van Gogh alla Royal Academy
La mostra raccolta in tre sale della Royal Academy ha ricostruito come Vincent van Gogh perseguiti Anselm Kiefer da quasi 60 anni. Tutto è iniziato quando Kiefer, a 18 anni, ricevette una borsa di viaggio per seguire il percorso di Van Gogh dai Paesi Bassi, attraverso il Belgio, fino ad Arles. Realizzata con il Van Gogh Museum di Amsterdam, l’esposizione ha accostato opere dei due per rivelare comuni ossessioni per mitologia, filosofia e peso della storia, rispettandone al tempo stesso le differenze. I dipinti e le sculture monumentali di Kiefer, nutriti dal postimpressionismo d’avanguardia di Van Gogh, hanno acquisito un contesto nuovo, mentre i lavori del 1890 di Van Gogh sono apparsi di nuova vitalità. Le nuove opere di Kiefer, presentate per la prima volta, dimostrano che continua a scavare in quell’incontro originario. Il formato concentrato ha permesso al pubblico di seguire le influenze senza forzare i legami.
Dal cuore alla mano: Dolce & Gabbana al Grand Palais
La moda ha avuto il suo momento museale quando Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno conquistato il Grand Palais di Parigi per celebrare 40 anni di visione massimalista. Dopo il debutto milanese, "Du Coeur à La Main" si è dispiegata su 1.200 metri quadrati e tre piani a Parigi, con 200 capi di Alta Moda e Alta Sartoria, 300 accessori fatti a mano e 130 opere disposte in 12 tableaux mozzafiato. A cura di Florence Müller, la mostra ha collocato con pertinenza il savoir-faire di D&G nel più ampio patrimonio artistico italiano. La visione ravvicinata del loro lavoro (quei posti in prima fila che quasi nessuno ottiene) ha rivelato pura maestria sotto l’eccesso teatrale.