Può l'art-washing sopravvivere all'era dei social media?

Può l'art-washing sopravvivere all'era dei social media?
Diritti d'autore AP Photo / Peter Dejong
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Di Tim Gallagher
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Soldi ad istituzioni museali e filantropia per ripulirsi la reputazione: è l'art-washing, contestato sempre più nell'epoca dei social media

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Le rotture non sono mai facili ed è per questo che ci siamo tutti rattristati quando il Metropolitan Museum of Art e la famiglia Sackler hanno annunciato che la loro lunga relazione stava per finire.

O forse no?

I Sackler, che hanno donato milioni al Met nel corso degli anni, stanno attualmente affrontando la procedura di fallimento dopo che la loro azienda, la Purdue Pharma, si è dichiarata colpevole delle accuse rivolte a suo carico nel caso riguardante la crisi sanitaria da dipendenza da oppioidi che negli ultimi anni ha causato centinaia di migliaia di morti negli Stati Uniti.
Purdue Pharma - che tra le responsabilità che le sono imputate ha ammesso di aver ostacolato l’agenzia federale antidroga nel contrastare la diffusione della dipendenza da oppioidi, di non aver impedito che i suoi farmaci finissero sul mercato nero e di aver incoraggiato in maniera non lecita i medici alla prescrizione di antidolorifici - è sul punto di pagare 8,3 miliardi di dollari (7,4 miliardi di euro) tra confische e multe.
Ad oggi la crisi delle overdose di droga in America è costata 470.000 vite.

Ma il Met non è l'unica istituzione culturale che sta cercando di allontanarsi dalla reputazione distrutta dei Sackler. Negli ultimi anni il Louvre, la Tate e il Museo Ebraico di Berlino hanno tutti preso le distanze dagli ormai controversi filantropi.

Se gli scandali spesso ci spingono a chiederci se possiamo separare l'arte dall'artista, questi sviluppi dovrebbero incoraggiarce a porci un'altra domanda: come separare gli artisti dai loro sponsor?

La filantropia dei combustibili fossili

La dipendenza da oppioidi e la salute pubblica non sono affatto l'unico scandalo che lambisce musei e gallerie. La recente notizia che il Science Museum di Londra aveva scelto una compagnia di combustibili fossili per sponsorizzare la sua mostra sul clima è stata accolta con sgomento, culminato con l'occupazione dell'edificio da parte di un gruppo di giovani attivisti durante la notte.

"Se si espone o si mostra il logo della BP o della Shell in una mostra, si contribuisce a migliorare il loro marchio e a dare loro legittimità sociale", dice Chris Garrand, fondatore di Culture Unstained, l'organizzazione che ha sostenuto i manifestanti.

Piuttosto che filantropia bonaria, Garrand crede che le donazioni delle compagnie di combustibili fossili siano un modo per riorientare la loro immagine pubblica, una pratica nota come 'artwashing'.
"Queste sponsorizzazioni sono delle transazioni: si stanno comprando quella buona reputazione", dice il fondatore di Culture Unstained.

Le istituzioni culturali sono spesso viste come uno spazio neutrale, luoghi che espongono passivamente opere arte o contenuti scientifici, ma Garrand le definisce più come uno spazio discorsivo, che può essere strumentale nel cambiare la percezione pubblica delle aziende inquinanti.

"Questi partenariati non avvengono nel vuoto; stanno sostenendo queste aziende", dice Garrand.

BEN STANSALL/AFP or licensors
Science Museum di LondraBEN STANSALL/AFP or licensors

L'artwashing può sopravvivere all'era dei social media?

L'artwashing non è una novità, come dimostra la sponsorizzazione del Sackler al Met dagli anni '70. Tuttavia, se in alcune circostanze le reputazioni possono essere state più o meno facilmente ripulite, la tendenza attuale è quella di non tollerare grandi macchie.

"Le gallerie sono marchi... e non c'è bisogno di scavare a fondo per trovare contraddizioni" - dice Paul Springer, direttore della Scuola di Comunicazione della Falmouth University - i social media forniscono una piattaforma alle persone che vogliono mettere in discussione i fatti per come vengono presentati. C'è una maggiore messa in discussione delle motivazioni ora".

Il problema non riguarda solo il pubblico degli spettatori. Nel 2019 la National Portrait Gallery di Londra ha dovuto affrontare problemi quando l'artista Gary Hulme ha promosso un appello affinché l'istituzione museale si privasse dei finanziamenti derivanti dai combustibili fossili.

JIM WATSON/AFP or licensors
National Portrait GalleryJIM WATSON/AFP or licensors

Springer cita come gli artisti stessi siano avveduti nell'associarsi a gallerie o premi che potrebbero danneggiare i loro marchi: "Sono sempre stati consapevoli di dove esporre e dove non esporre e si sono interrogati di più su quali finanziatori sarebbero stati disposti a essere coinvolti", dice.

In un'epoca in cui tali eventi possono essere rovinosi per chiunque sia collegato, ha più senso per tutte le persone coinvolte non rischiare.
"I valori al momento hanno più peso del denaro - dice Springer - alcuni luoghi sono selettivi; non dovrebbero portare marchi che si scontrano con la loro ideologia".

Gli scandali di sponsorizzazione costano anche finanziariamente, con alcuni collezionisti che non desiderano esporre il loro lavoro nel caso in cui la sponsorizzazione controversa e le proteste diventino parte della storia più ampia espressa dal patrimonio artistico, che potrebbe vedere diminuito il suo valore.

"L'intero movimento dell'arte è più cauto - c'è molto di più. C'è più riluttanza a mandare opere a mostre dove potrebbero causare controversie".

Se la sponsorizzazione legata ai combustibili fossili non è completamente scomparsa (la BP sta sponsorizzando la nuova mostra su Stonehenge al British Museum), è però chiaramente diminuita.

Di fronte a un più pubblico consapevole, potremmo presto vedere il tasso di divorzio museo-sponsor aumentare drammaticamente.

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