Il ruolo dei mezzi di comunicazione nelle pandemie del '57 e '68: informazione, paura o prevenzione?

Personale militare danese contagiato dall'influenza asiatica a Copenhagen nel 1957: tra il 15% e il 25% dei soldati si stima siano stati contagiati in quell'anno
Personale militare danese contagiato dall'influenza asiatica a Copenhagen nel 1957: tra il 15% e il 25% dei soldati si stima siano stati contagiati in quell'anno Diritti d'autore AP Photo
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Di Pablo Ramiro
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Chi se le ricorda? Eppure ci sono state due pandemie a distanza di quasi 10 anni l'una dall'altra. Che ruolo giocarono i mass media, in quel momento? Ne parliamo qui.

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Nel febbraio 1957, l'"influenza asiatica" (influenza H2N2) uccise più di un milione di persone in tutto il mondo in due anni. Il primo caso venne segnalato in Cina, e nell'estate dello stesso anno la malattia comparve sulle coste degli Stati Uniti. Era scoppiata una pandemia.

Poche persone però conoscono o ricordano, oggi, quella crisi sanitaria, verificatasi poco più di 50 anni fa.

Dieci anni più tardi, nel 1968, un'altra pandemia, l'influenza H3N2, uccise un numero di persone in tutto il mondo compreso tra 1 e 4 milioni, come indica l'Enciclopedia Britannica. 

Ma anche qui, la memoria collettiva sembra essere sprofondata nell'oblio. Nessuna delle due ha goduto di una copertura mediatica massiccia paragonabile a quella di Covid-19. Come mai?

Nessuna restrizione o distanziamento sociale

Come spiega lo storico Mark Honigsbaum sulla rivista The Lancet, nonostante il numero di morti fosse in aumento nel Regno Unito (arrivò a 600 durante la settimana del 17 ottobre 1957), in quel periodo non ci fu nessun appello al distanziamento sociale, né titoli allarmistici sui giornali. 

Lo stesso avvenne dieci anni dopo, durante la pandemia del 1968.

Questa relativa assenza di preoccupazione da parte dei media, spiega Honigsbau, è stata usata come pretesto da alcuni per criticare la risposta di media e governi all'attuale emergenza sanitaria.  Sostengono che il modo migliore per affrontare questo genere di crisi sia quello di seguire l'esempio dei governi durante le precedenti pandemie. 

Nel 1918, la cosiddetta "spagnola" uccise come minimo 50 milioni di persone nel mondo nonostante lo stoicismo mostrato dalla popolazione, prova - secondo alcuni - della sostanziale inefficacia delle misure di contenimento. 

Tenere alto il morale delle truppe

Tuttavia, non tutti sono d'accordo su questo punto. 

Le sorelle María e Laura Lara Martinez, ricercatrici di storia e professoresse all'Udima di Madrid,  ritengono che l'influenza del 1918 era ben presente nei media. Eccome.

"La cosiddetta 'influenza spagnola' è stata a tutti gli effetti una malattia mediaticizzata, di cui si parlava in tutto il mondo, ma soprattutto in Spagna, ed è per questo che è stata attribuita al nostro Paese", spiega María Lara. 

Sia lei che Ricardo Campos, presidente della Società spagnola per la storia della medicina, spiegano che nei paesi coinvolti nella prima guerra mondiale non si è posto l'accento sulla pandemia perché la diffusione della notizia poteva minare il morale delle truppe.

Mettendosi nei panni dei più critici, Honigsbau si fa questa domanda: "Se non c'è stato panico nelle pandemie del 1918, 1957 e 1968... perché dovrebbe diffondersi ora?"

Secondo lo storico, la mancata applicazione delle misure di contenimento dell'epoca si deve allo sviluppo ancora primitivo delle statistiche applicate alla medicina. Era **impossibile, in pratica, tenere monitorata la gravità della diffusione del contagio. **

Inoltre, dice, "rendendosi conto che l'influenza era spesso associata ad infezioni lievi o inapparenti, e che le quarantene non venivano praticate, le autorità sanitarie pubbliche negli Stati Uniti e nel Regno Unito non hanno fatto alcuno sforzo per mitigare la diffusione dell'infezione, ad esempio introducendo controlli alle frontiere o rigorose misure di isolamento".

Ma anche nel 1957 si sono levate voci critiche sulla passività delle istituzioni. 

Il dottor Kitching in quell'anno scrisse una lettera alla rivista accademica British Medical Journal (BMJ) riprendendo un articolo dal titolo: "Il pubblico sembra avere l'impressione che non si possa fare nulla per prevenire la calamità che minaccia la diffusione dell'influenza in Estremo Oriente". 

"Al contrario", sostenne Kitching, "c'è molto che il governo può fare; agire immediatamente può salvare centinaia di migliaia di vite".

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I media e la Guerra fredda

C'era un'altra ragione per cui le pandemie di metà secolo scorso non ricevettero ugual copertura mediatica di quella attuale - al di là della natura dei mezzi di informazione. 

"Gli editori erano riluttanti a suscitare i timori del pubblico, il che forse rifletteva una maggiore ansia dovuta alla guerra fredda e al lancio dello Sputnik, nonché un maggiore rispetto per la comunità scientifica, associata ad una maggiore deferenza verso l'autorità", spiega Honigsbau. 

Anche le sorelle Lara sono d'accordo: "La situazione in quel momento, con la guerra fredda, portava forse a ritenere che parlare di una pandemia che stava colpendo tutti... avrebbe potuto essere visto come un messaggio di uguaglianza globale - e questa era una cosa negativa".

Lo stesso vale per il 1968 quando, spiega Campos, è stato necessario installare un obitorio provvisorio nella metropolitana di Berlino - senza che la cosa però ottenesse copertura mediatica: "Il mondo era impegnato con altre questioni, come il maggio 1968 o la primavera di Praga. Ci sono diversi movimenti rivoluzionari, e tutti erano consapevoli di ciò che stava accadendo". 

Per Campos, "la grande differenza è che questa pandemia viene trasmessa in tempo reale, mentre per quanto riguarda le altre due... beh, sono successe in un mondo diverso e che aveva ben altre gatte da pelare, in quel momento".

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