Olocausto, la storia dei tatuaggi identificativi di Auschwitz-Birkenau
Negli altri campi istituiti sotto il Terzo Reich, i deportati recavano un numero identificativo cucito sul vestito, all'altezza del petto. Ad inizio 1943, il capo di Auschwitz, Rudolf Höss, decise di tatuare tutti i prigionieri, uomini e donne, ad eccezione di quelli tedeschi
Il campo di Auschwitz-Birkenau, liberato dall'Armata Rossa 75 anni fa - il 27 gennaio 1945 - è il simbolo più noto al mondo della tragedia della shoah e dello sterminio di zingari, omosessuali, dissidenti, polacchi, sovietici e persone di circa 20 nazionalità diverse, orchestrato dal regime nazista su scala industriale. Ma è anche l'unico campo di concentramento ad aver istituito il metodo più spregevole per identificare i prigionieri, segnandoli indelebilmente nella loro carne con un tatuaggio.
Negli altri campi istituiti sotto il Terzo Reich, i deportati recavano un numero identificativo cucito sul vestito, all'altezza del petto. Ad inizio 1943, il capo di Auschwitz, Rudolf Höss, decise di tatuare tutti i prigionieri, uomini e donne, ad eccezione di quelli tedeschi.
Il 14 giugno 1940 viene considerata la data d'inizio dell'attività del campo, allestito in un quartiere abbandonato della città polacca meridionale di Oswiecim. Quel giorno arrivò un primo convoglio di 728 prigionieri politici polacchi. Ma fu solo nel dicembre 1941 che il tatuaggio venne "testato", principalmente sui prigionieri sovietici, contro cui si accanirono con particolare ferocia le SS: morirono difatti in gran numero - su 15mila internati, solo un migliaio sopravvissero.
Il primo metodo di tatuaggio era una vera e propria tortura: una placca, piena di aghi formava le cifre della matricola, veniva brutalmente ficcata nel petto del deportato; l'inchiostro era poi applicato sulla pelle incisa. Dalla primavera del 1942, anche i polacchi furono sottoposti allo stesso trattamento crudele.
La pratica del tatuaggio sistematico sull'avambraccio sinistro
Solo il 22 febbraio 1943, come indica una scheda scritta dal Kommandantur di Auschwitz, venne dato avvio alla pratica del tatuaggio sistematico sui deportati, ebrei e non, scampati alla morte nelle camere a gas perché ritenuti idonei al lavoro dalle SS.
I nazisti ritenevano che questo fosse il modo migliore per identificare tutti i prigionieri - anche in caso di morte - data la vastità del campo, che con i suoi 47 annessi aveva un'estensione di 40km quadrati.
Il numero di identificazione veniva tatuato sull'avambraccio sinistro, di solito sulla parte esterna; alcune volte veniva fatto all'interno dell'avambraccio. Gli "schreiber", che erano anche prigionieri, registravano il nome e il numero di coloro che erano assegnati ad ogni baracca.
Nel libro "Dottore ad Auschwitz", il medico legale Miklos Nyiszli, ebreo ungherese, racconta: "Il prigioniero usa uno strumento pieno di inchiostro per fare tante piccole punture sul braccio. Al loro posto compaiono macchie bluastre e sfocate. Mi rassicura, la pelle sarà un po' infiammata, ma passerà dopo una settimana e i numeri appariranno chiaramente staccati".
Quando il deportato scendeva dal treno, se le guardie ritenevano fosse in salute a adatto al lavoro, di solito veniva tatuato il giorno dopo - una regola che però non era sempre rispettata.
Il passaggio successivo era transitare attraverso un cosiddetto edificio di disinfezione, soprannominato "la sauna". Lì veniva registrato, spogliato di tutti i suoi averi, rasato dalla testa al pube. Dopo la doccia, gli veniva assegnato il tristemente famoso abito a strisce.
Ridotti ad un numero
Il numero inchiostrato sulla pelle è uno dei punti culminanti del processo di disumanizzazione studiato a tavolino dalla macchina di morte nazista. Il prigioniero non aveva più nemmeno un nome, era semplicemente un "numero di registrazione": doveva impararlo a memoria ed essere in grado di poterlo recitare, in tedesco, ad ogni chiamata o convocazione.
Per gli ebrei più ortodossi era un ulteriore sfregio poiché la Torah vieta qualsiasi modifica irreversibile del corpo, compresi i tatuaggi. Sappiamo però che gli esseri umani hanno capacità di adattarsi a tutto, anche all'inferno in terra. Nell'emblematico libro "Se questo è un uomo", Primo Levi spiega come alcuni deportati siano riusciti a trovare un po' di umanità dietro ogni numero.
"Alcuni di noi hanno gradualmente familiarizzato con la scienza funebre dei numeri di Auschwitz, che da soli riassumono le tappe della distruzione dell'ebraismo in Europa", scriveva l'autore torinese. "Per gli anziani del campo, il numero dice tutto: la data di arrivo al campo, il convoglio di cui facevi parte, la nazionalità. Un numero compreso tra 30mila e 80mila viene sempre trattato con rispetto, ne restano solo poche centinaia".
Secondo diverse testimonianze, le guardie delle SS sembravano avere un certo rispetto per i prigionieri con i numeri più bassi, prova della loro resilienza e capacità di sopravvivenza. A volte veniva loro assegnato un compito meno gravoso rispetto a quello assegnato ai prigionieri da poco arrivati.
Furono circa 400mila le persone registrate e ridotte a un numero nel più grande campo di sterminio nazista: oltre la metà di loro vi trovò la morte. Su un totale di 1,3 milioni di uomini, donne e bambini arrivati ad Auschwitz, 1,1 milioni non ne è mai uscito vivo - per il 90% ebrei provenienti da tutta Europa.