L'Economia della fiducia da un caffè di Amsterdam al mondo

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di Irene Dominioni Amsterdam è famosa per i suoi locali vivaci e alternativi, ma è soprattutto uno di questi a risultare particolarmente intrigante.

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di Irene Dominioni

Amsterdam è famosa per i suoi locali vivaci e alternativi, ma è soprattutto uno di questi a risultare particolarmente intrigante. A renderlo diverso da tutti gli altri è il modello economico su cui si basa, un’idea semplice, ma al tempo stesso esaustiva: la fiducia. Tutto qui. A Trust Amsterdam basta entrare e accomodarsi ai tavoli, accoglienti e dal tocco vintage, per gustare gli ottimi piatti vegetariani preparati nella cucina a vista. A fine pasto, si paga solo quello che si giudica un prezzo giusto per quel che si è mangiato. Sul menù, infatti, non si trovano numeri, ma soltanto una lista di nomi curiosi e stravaganti, dai fiocchi d’avena Cozy Glory Oats della colazione al tartufo al cioccolato Sparkling Heart per dolce.

Nato dall’idea di sei soci fondatori provenienti da realtà molto diverse, Trust Amsterdam ha preso vita come una sorta di esperimento sociale volto all’incontro con la “pace interiore”. Oggi il posto vanta tre anni e mezzo di attività, e l’idea funziona. “Avevamo iniziato più che altro per noi, per dimostrare a noi stessi e alle persone che incontravamo che è possibile scambiare qualcosa di più del denaro, che potevamo mostrarci per come siamo, vivendo una vita semplice, ma piena e felice”, dice Astrid Kersten, co-fondatrice e volontaria “per sempre felice e contenta” di Trust. Mentre ci racconta da dove è nato tutto, trasmette la serenità di un cielo terso.

Lo spirito che muove il progetto è qualcosa a metà tra la filosofia buddista e la cultura hippie: “Ascolta il tuo cuore e lascia che ti dica quanto pagare. Ciascuno dà qualcosa, fiducioso che ce ne sia sempre abbastanza per tutti” si legge sul sito. Il locale è gestito da volontari, i quali non ricevono nessun salario e condividono tra loro i guadagni. Non lo fanno per profitto: lo scopo, in fondo, è condividere se stessi e il proprio spirito di generosità.

Ciò lascia intravedere una miriade di possibilità, l’ipotesi di un’alternativa al sistema economico che conosciamo e un’opportunità per ripensare i rapporti economici del mondo in cui viviamo. Si potrebbe trattare di un tipo di commercio più sostenibile ed equo? Attuarlo su larga scala sarebbe solo un sogno? Non secondo Rachel Botsman, esperta a livello mondiale in questo campo e autrice del libro sul consumo collaborativo “What’s Mine Is Yours: The Rise of Collaborative Consumption”. Sta già succedendo, infatti, grazie a servizi come Airbnb e Blablacar, giusto per citarne un paio. È quella che viene chiamata sharing economy, “Un sistema economico basato per buona parte su mercati peer-to-peer che dipendono dal collante sociale della fiducia tra sconosciuti”, secondo la definizione fornita dall’esperta. Affittando i propri appartamenti, offrendo passaggi e condividendo le più diverse tipologie di beni e servizi, le persone hanno sempre più il potere di risparmiare e di guadagnare a partire dalle proprie risorse. Trasformandosi così, da consumatori passivi, in micro-imprenditori. In questa nuova economia, la fiducia rappresenta a tutti gli effetti una moneta: posta alla base di nuovi tipi di scambi commerciali, pone i rapporti personali al centro, piuttosto che transazioni fredde e vuote. È ciò che Botsman interpreta come “una rivoluzione collaborativa della stessa portata della rivoluzione industriale”.

Il principio alla base dell’economia della fiducia è che la misura dell’affidabilità delle persone è la loro reputazione. Offrendo una valutazione dell’host o del guidatore, le piattaforme di sharing economy contribuiscono a creare una comunità in cui le persone sono incoraggiate ad essere coscienziose, a vantaggio proprio e degli altri. Così l’affidabilità sta assumendo un ruolo sempre più importante, perfino preponderante rispetto ad altri fattori, nel confronto e nello scambio tra due individui su internet, fino a diventare più preziosa del denaro stesso. Ci fa avvicinare l’uno all’altro, ci fa vivere un rapporto vero e umano.

Secondo Botsman, è solo questione di tempo prima che una ricerca in stile Google o Facebook ci restituisca un profilo completo della persona e della sua affidabilità in diversi contesti, all’interno di una specie di “dashboard della reputazione”. Certamente questo porta in luce una serie di questioni legate alla privacy, ma il vantaggio di costruire e controllare la propria nomea consentirebbe anche di gestirla meglio, potendone sfruttare tutto il valore. “Attraverso il capitale reputazionale si potrebbe creare uno sconvolgimento positivo nella definizione di chi detiene il potere, la credibilità e l’autorità” aggiunge Botsman. Non si tratta solo di un guadagno strumentale: è in gioco la ridefinizione del significato del denaro, e quindi della supremazia.

Il caffè Trust Amsterdam porta in sé il seme di una rivoluzione, un cambiamento sostanziale nel nostro modo di pensare l’economia che, invece della ricchezza, pone sempre più al centro del mondo le persone. Un ulteriore passo in questa direzione consisterebbe nell’unione tra il principio del capitale reputazionale e il modello del “paga come meglio credi” di Trust Amsterdam: portato su scala mondiale, equivarrebbe ad un terremoto. Come questo possa essere attuato, rimane una domanda a cui si deve ancora trovare risposta. Forse Trust Amsterdam è nato per fiorire soltanto nella cornice del sistema corrente, come una coraggiosa ma vana micro-ribellione, piuttosto che come il bagliore di una soluzione anti-capitalista. Ciò nonostante, ci incoraggia verso una nuova cultura di consumo in chiave collaborativa. E, ancora di più, pone una domanda importante su che cosa intendiamo, oggi, con il termine “equità”. Si tratta di decidere, in altre parole, se il valore di un bene o servizio debba essere stabilito in un prezzo che sia lo stesso per tutti, oppure se vivremmo in un mondo più onesto se ciascuno fosse posto nella condizione di dare e ricevere in misura proporzionale alla propria capacità

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