Ad Aleppo Euronews incontra un leader dei ribelli

Ad Aleppo Euronews incontra un leader dei ribelli
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Strade impraticabili, ingombre di macerie, carcasse di auto, abitazioni sventrate, prive di vita. Questa è Aleppo, seconda città della Siria.
Da oltre tre mesi si combatte anche qui. Strada per strada. L’esercito e i ribelli rivendicano ogni metro conquistato, palmo a palmo, mentre chi può scappa, ingrossando il numero degli sfollati.
Il nostro inviato, Farouk Atig, è riuscito ad incontrare uno dei leaders della rivolta.

“E’ estremamente difficile riuscire a parlare con il comandante del consiglio militare di Aleppo – dice il nostro inviato – Quest’uomo, che si fa chiamare Abdelkader el-Hadji e che rivendica oltre 6000 combattenti ai suoi ordini, è uno dei massimi ricercati dal regime di Assad. 32 anni, ex commerciante, molto ripettato dai suoi uomini, vive in condizioni di massima sicurezza. Siamo riusciti ad intervistarlo”

Civili, donne, bambini, muoiono ogni giorno ad Aleppo. In tutta la Siria. Stragi d’innocenti che ancora la diplomazia internazionale non ha fermato. Ma quest’uomo è fiducioso, la spunteranno sul regime di Assad.
Sono in tre a comandare i ribelli ad Aleppo. Uno dei capo è al suo fianco. Il terzo è nella regione di Marea, a nord della città. Lui, Abdelkader, dirige la brigata el Tawhid. Non ha nessuna formazione militare ma un vero spirito da leader.

Ci accoglie nel suo rifugio. Lo circondano i più fedeli. Il nostro giornalista chiede se i ribelli siano in difficoltà nei tanti fronti aperti.

“No, no, al contrario. Siamo sempre più forti. L’esercito di assad non è numeroso, non possono combattere ovunque. Ci sono fronti aperti ad Arkoub, a Saba Bahart, la vecchia Aleppo, e a Salah Eddine. Quando abbiamo iniziato la battaglia ad Arkoub, loro erano altrove, concentrati in uno degli altri fronti di guerra. L’esercito di Assad non è abbastanza numeroso. Non hanno abbastanza armi. Per questo abbiamo aperto vari fronti, per indebolirli, per metterli in difficoltà e loro non sanno più che fare.”

Chiediamo da dove arrivino le loro armi, se abbiano accolto tra le loro fila combattenti jihadisti.

“La risposta è contenuna nella domanda. Non abbiamo ricevuto né armi né aiuto internazionale. Nessuno ci aiuta. Le armi che abbiamo sono quelle recuperate dall’esercito di Assad. Ora abbiamo anche dei carri armati. Li abbiamo sempre presi ai nemici. Per fortuna, grazie a dio, adesso abbiamo un buon numero di armi, di kalashnikov, ma ce ne servono altre, più moderne per rispondere agli attacchi aerei. La comunità internazionale che fa? Niente. Ci guarda. E’ una vergogna. Uomini, donne, bambini sono massacrati ogni giorno. Le città cadono a pezzi. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non fa niente. Devono vergognarsi.”

Ci sono combattenti stranieri tra le vostre fila, venuti, ad esempio, da Libia, Tunisia o Palestina?

“Nella brigata Tawhid, quella che comando, non ci sono stranieri. Siamo tutti di Aleppo o della periferia, di paesi vicini. Nelle altre forse c‘è qualche forestiero, ma non sono in tanti. Li ringraziamo, ma è soprattutto di armi che abbiamo bisogno. Quelli che sono con noi, soffrono con noi, si sacrificano per la Siria. Siamo tutti uniti in quanto musulmani, per il popolo siariano. Anche loro, quelli che si sono uniti a noi, sono qui per difendere la Siria.”

Diciotto mesi di guerra civile hanno ucciso almeno 23mila persone. Oltre un milione gli sfollati
in Siria, circa 230mila nei paesi confinanti. Fuori, intanto, si continua a combattere.

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