Tripoli, alla ricerca di una futura "Primavera Libica"

 REUTERS/Ismail Zitouny
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Di Cristiano Tassinari
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Per conoscere meglio le complicate vicende geo-politiche della Libia, abbiamo intervistato Roberto Vetrugno, autore del romanzo "Tripoli", basato su una sua esperienza personale trascorsa come docente di lingua italiana all'Università di Tripoli. Ne esce il ritratto di un paese contraddittorio.

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Per conoscere meglio le complicate vicende geo-politiche della Libia, abbiamo intervistato Roberto Vetrugno, autore del romanzo "Tripoli" (Unicopli), basato su una sua esperienza personale trascorsa come docente di lingua italiana all'Università di Tripoli.

Mural del palazzo della Facoltà di lingue, Università di Tripoli (2013), firmato: “painted by: Killa”

Ricercatore senza lavoro in patria, Alberto accetta l’incarico di docente di lingua italiana all’Università di Tripoli poco dopo la caduta del regime di Gheddafi. Atterrato nella capitale libica, sprofonda in un mondo immenso e inquietante, in cui la luce e la sabbia avvolgono ogni cosa. Almeno finché, durante una visita all’ambasciata, Alberto viene avvicinato da uno strano tipo che gli propone di collaborare con i servizi segreti italiani nella ricerca di un giornalista libico misteriosamente scomparso, Nader Omran: tra le studentesse del suo corso c’è, infatti, la cugina di Nader, Nur. Convinto che cercare Nader possa dare un senso al suo esilio, Alberto accetta. Inizia così la caccia a un fantasma svanito nel deserto, un viaggio dentro la feroce bellezza di una Libia dove nulla è come appare e, soprattutto, come sarà poche ore dopo, una corsa dentro un incubo senza fine tra criminali e trafficanti di uomini, islamisti radicali e giovani libici in lotta per la pace e la libertà, miliziani senza scrupoli e spie.

Alcune domande per Roberto Vetrugno, autore del libro. 

L'entrata in scena di Haftar

- Come se arrivassi da un altro pianeta, e non avessi mai sentito tutto quello che di brutto si dice della Libia, domanderei a chi la conosce bene: com'è la Libia oggi? Ne esistono veramente due, come le fazioni politiche in lotta per il potere?

REUTERS/Francois Lenoir/File Photo
Una foto del novembre 2010, che è ormai preistoria politica per il Nordafrica: il colonnello Gheddafi insieme all'allora Presidente della Tunisi Ben Ali.REUTERS/Francois Lenoir/File Photo

"Prima dell’assedio di Tripoli da parte di Haftar il paese era in balia di una miriade di milizie che si sono formate dopo la caduta del regime di Gheddafi impedendo la formazione di un potere centrale; Tripoli, Bengasi, Zintan, Misurata sono città di fatto con amministrazioni autonome: i miliziani gestiscono aree più o meno vaste del territorio, si alleano tra loro o si fanno la guerra per il controllo di ogni forma di commercio e di organizzazione della vita civile e militare, dal petrolio, alle armi alla giustizia. Le milizie sono collegate alle tribù, che da sempre hanno avuto un ampio potere sulla popolazione ma che Gheddafi ha saputo controllare rispettandone il ruolo determinante.

Con l’entrata in scena di Haftar questi eserciti irregolari si sono schierati con lui, o contro di lui, appoggiando il governo centrale di Serraj riconosciuto dall’ONU. Una polarizzazione che ha inasprito il conflitto soprattutto con l’assedio della capitale, tutt’ora in corso e che sta provocando migliaia di vittime tra i militari e i civili".
Roberto Vetrugno
Autore del libro "Tripoli"

"Il legame con l'Italia è fortissimo"

- Quanto è ancora forte il legame della Libia con l'Italia? Quanto "sentimento" c'è ancora nei confronti dell'Italia, da parte dei libici? Anti-Italia o pro-Italia? Come siamo visti a Tripoli e dintorni o in Cirenaica?

"Il legame è fortissimo, per varie ragioni storiche: dal 1911 fino al 1945, l’Italia ha perpetuato una vera e propria occupazione coloniale; Graziani negli anni Trenta ha utilizzato campi di concentramento e ha sperimentato eccidi di massa (anche con armi chimiche) ed è stato, agendo per conto di Mussolini, il principale responsabile di questa aggressione, raccontata in un film, Il leone del deserto, censurato in Italia per molti anni. Noi italiani dobbiamo ancora fare i conti con le responsabilità della nostra politica coloniale. Dal 1945 al 1970 invece gli italiani rimasti in Libia hanno convissuto pacificamente con la popolazione; nel 1970 migliaia di italiani furono cacciati da Gheddafi, ma poi negli anni Novanta il colonnello ha ristabilito e promosso accordi economici e strategici con l’Italia, anche se con grande cautela. Con il 2011 si è aperta una nuova fase di incertezza e di fragilità delle istituzioni statali. L’ENI ha certamente svolto un ruolo fondamentale in questa storia di relazioni: è stata la società straniera più importante sul territorio libico. e lo è ancora. Senza distinguere tra Tripolitania e Cirenaica i libici hanno apprezzato il ruolo dell’Italia che in diversi momenti ha portato lavoro, modernizzazione, tecnologie e una collaborazione tra i due stati che, in linea con l’idea di Mattei, ha evitato un approccio invasivo e neo-colonialista. I libici amano l’Italia, gli italiani e la nostra lingua: la Libia ha molto in comune con il nostro sud, per esempio una ricchezza culturale mediterranea che supera le differenze religiose".

"I dèmoni sono i compagni di viaggio dei migranti"

- Quanto c'è di vero sulle "prigioni libiche" e sulla tratta di esseri umani che partono proprio dalla Libia con destinazione Italia?

"Durante la mia permanenza in Libia nel 2013 ho potuto visitare una di queste prigioni: gente proveniente da tutta l’Africa ammassata nei container, in attesa di poter partire per l’Europa o di essere rimpatriata nel loro paese di origine; l’attesa è determinata dai soldi che i prigionieri possono garantire attraverso i loro familiari. Grazie all’intervento del ministro Minniti alcuni centri di detenzione dovrebbero essere sotto il controllo dell’ONU per garantire il rispetto dei diritti civili, ma la maggior parte sono fuori controllo. Nel mio romanzo Tripoli ho raccontato l’imbarco dei migranti che dai container vengono trasportati sotto sorveglianza armata sulle imbarcazioni di fortuna, quelle che vediamo nei telegiornali: è l’inizio del viaggio verso la morte e la speranza di vita, morte e speranza insieme: quando i migranti salgono a bordo queste due possibilità non sono opposte dentro di loro, sono unite in un unico sentimento, quello della liberazione da una prigionia atroce, in alcuni casi documentati peggiore forse della morte. La collana in cui è uscito il mio libro, diretta da Flavio Santi per le Edizioni Unicopli, si intitola La porta dei dèmoni: questi migranti attraversano una porta per fuggire dai dèmoni, ma spesso i dèmoni diventano i loro compagni di viaggio".

"Tra vent'anni mi aspetto una Libia protagonista della vita economica e politica"

- Dopo la morte di Gheddafi, la "Primavera Araba" sembrava poter diventare anche "Primavera Libica", invece... Come prevede la Libia tra cinque, dieci, vent'anni?

Libia, 2013.

"Il mio romanzo racconta la vita di un giovane giornalista libico che è il simbolo della Primavera Araba in Libia: non è un caso che questo giornalista nel romanzo risulti scomparso e che il protagonista, un malandato ricercatore italiano, decida di cercarlo a tutti i costi. Un occidentale arrivato in Libia nel 2013 non trova alcun segnale della Primavera di cui ha letto sui giornali occidentali e ciò significa che la Primavera è stata rapita, sequestrata, ricattata e sfruttata da una serie di soggetti interessati alla destabilizzazione di quell’area. Questi soggetti sono molti e non agiscono d’accordo tra loro, non sono organizzati e non complottano, ma si muovono con disordine, quel disordine spesso ottuso e violento del male, di chi trama solo per il proprio interesse a ogni costo e contro il bene dell’uomo, arabo o cristiano che sia. Il protagonista di Tripoli, disilluso e nichilista, decide di cercare il giornalista per dare un senso alla sua presenza ed è un po’ quello che potrebbe fare l’Occidente, cercare di dare voce alla richiesta di libertà di una società civile schiacciata prima dalle dittature e poi dagli islamisti radicali. Moltissima gente lotta nei paesi del Maghreb per la libertà e i diritti fondamentali, ma noi non riusciamo a sentirli. Tra cinque anni la Libia la vedo un po’ più stabile e con i primi governi che sperimentano tra mille difficoltà le procedure democratiche; tra dieci la potrei vedere pacificata e più disposta alla democrazia; tra vent’anni mi auguro che possa essere un paese protagonista della vita economica e culturale del Mediterraneo, una sponda amica e in contatto costante con l’Italia e l’Europa, in una visione che finalmente possa unire il vecchio continente al Maghreb. Sono un ottimista, forse un po’ troppo! Ma lo so...".

"Il popolo libico vorrebbe aprirsi al mondo, ma ha paura..."

- Che periodo ha vissuto in Libia? Che esperienze ha fatto? Qual è il suo rapporto con questo paese che, immagino, le sia rimasto dentro, al cuore e all'anima?

Roberto Vetrugno

"Ho vissuto in Libia sei mesi nel 2013, come visiting professor fui mandato dall’Università di Pavia presso l’Università di Tripoli per riattivare il corso di laurea in lingua e cultura italiana e per progettare un nuovo piano di studi; ma è come se ci fossi stato più tempo, un tempo indefinito e non lineare ma esteso come il deserto e forse, come dice qualcuno, dalla Libia non sono più tornato; ho raccontato questa mia esperienza nel romanzo, la maggior parte delle vicende narrate sono vere, ma un buon numero di fatti sono inventati, o meglio intuiti e non propriamente vissuti. Del resto ogni narrazione è invenzione, ogni scrittura è creazione dal nulla e a volte la scrittura crea la realtà fino ad arrivare alla verità. Nel cuore mi è rimasto un popolo straordinario, paziente, ospitale, che ama l’Italia e vorrebbe aprire il proprio paese al mondo, anche se con una certa paura perché tengono molto alle loro tradizioni e alla loro religione, ma in modo pacifico, solo pochi gruppi di esaltati vogliono la guerra, per ignoranza e disperazione. E poi mi sono rimasti nel cuore il deserto e la sua luce, la luce che disfa il tempo e i gesti, permette di vedere gli occhi degli uomini profondamente, sguardi immobili che ti fissano trattenendo il nostro sguardo occidentale, fugace e distratto, impaziente e presuntuoso. Ecco, in Libia credo di aver imparato a cercare l’anima delle persone guardandole negli occhi e perdendo il mio tempo. La Libia è un paese meraviglioso e, come succede ai luoghi più belli della terra, l’uomo si accanisce contro di essi e li disfa, li riempie di armi e sangue, di odio, perché l’uomo ha spesso paura della bellezza della terra, non è in grado di comprenderla e tutelarla, forse non la merita e per questo è il peggiore degli animali, rischia di essere un barbaro e non meriterebbe la cittadinanza che il pianeta gli offre. La Libia è un esempio di questa disfatta".

Una cartolina da... Tripoli

Esther Kofod
"The Red Castle", Saraya Hamra, Tripoli.Esther Kofod
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