'Veramente' Guido Guidi. Il maestro della fotografia italiana in mostra a Parigi

'Veramente' Guido Guidi. Il maestro della fotografia italiana in mostra a Parigi
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Di Andrea Neri
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Centoventicinque fotografie, dal bianco e nero degli inizi fino ad entrare nella sua vera pelle, quella del colore. Dalla fine degli anni Sessanta fino alle recenti immagini della Sardegna. Assieme a un libro che riassume le ricerche di 40 anni pubblicato dall’editore britannico Mack. Il fotografo italiano Guido Guidi ha inaugurato alla Fondazione Henri Cartier-Bresson di Parigi un’esposizione intitolata “Veramente”.

Una mostra di eccezionale valore non soltanto per ciò che rappresenta nella lunga carriera del fotografo di Cesena, ma per la cultura italiana più in generale, sempre a rischio di restare ai margini della scena internazionale. Abbiamo incontrato Guidi che ha cominciato parlandoci della sequenza che apre l’esposizione: una serie di 3 scatti eseguita nel 1967, esempio di snapshot che illustra le origini dell’autore che da lì a qualche anno sarebbe giunto al suo approdo definitivo: il grande formato 20×25.

'Veramente' Guido Guidi. Il maestro della fotografia italiana in mostra a Parigi from Andrea Neri on Vimeo.

Guido Guidi:
Posso dire che è stata fatta alla stazione di Cesena con una piccola camera 35 millimetri. Stavo andando a Venezia e nella sala d’aspetto c’era questo signore che leggeva. Ho puntato la macchina rischiando anche di essere picchiato ma forse ha avuto compassione di me perchè ero gracile e non ero temibile. E semplicemente si è protetto con il giornale vedendo che io lo stavo fotografando. Ma nel frattempo io avevo registrato questa azione che poi ho leggermente, anzi non leggermente, brutalmente ingrandito perchè ovviamente avevo un obiettivo normale quando ho fotografato, non avevo il tele. Quindi c’era una certa distanza e ho dovuto usare solo una parte del negativo.

Andrea Neri, euronews:
Una cosa che Walker Evans non ti avrebbe criticato…

Guidi:
No perchè Evans tagliava. Tagliava spesso le fotografie. Forse Cartier-Bresson mi avrebbe criticato. Però in quel periodo eravamo anche in polemica con il “momento decisivo” e con la scelta di rispettare la pellicola, una decisione che abbiamo sempre avuto in consapevolezza, anche in omaggio a Cartier-Bresson e non in contraddizione. Però in certi casi, in questo caso ho fatto diverse prove e mi sembrava opportuno, essendo questa una sequenza, essendo che la fotografia era troppo ampia, il campo era troppo ampio. Ma anche quando ho fatto la fotografia ero consapevole di aver fatto l’inquadratura troppo ampia e quindi bisognava poi corregerla dopo. Bisognava precisare dopo e quindi facendo questa operazione ho pensato di riguadagnare questo aspetto religioso dell’opera mettendo i numeri della pellicola, stampando anche i numeri della pellicola che mostrassero come in realtà io non avevo “barato”.

Le prime immagini che Guido Guidi scatta con il grande formato sono eseguite con una macchina artigianale di 50 centimetri per 60. Un’attrezzatura difficile da concepire per quanti, oggi, siano abituati a riporre una macchina fotografica digitale in borsetta oppure nel taschino della camicia.

euronews:
Raccontaci della camera che ti sei costruito e che hai usato per diversi anni.

Guidi:
Era una scatola di legno che ho fatto io. Mio padre era falegname quindi ho qualche nozione di falegnameria rudimentale, l’ho appresa da ragazzino. Quindi ho tagliato i pezzi, ho costruito due scatole rientranti e infine ho montato un obiettivo buttato via da una macchina fotocopiatrice rottamata, quindi non mi è costata quasi niente, qualche spicciolo. Ecco, il costo era la pellicola, ma la pellicola era quella che facevo comprare a scuola per usufrutto meccanico, per le mappe che era l’ambito in cui lavoravo. Era una pellicola ortocromatica, quindi non sensibile al rosso e molto sensibile invece al blu. Qui non ci sono dei blu ma il cielo sarebbe diventato completamente bianco, come nelle fotografie di Hippolyte Bayard o dei primi fotografi dell’Ottocento.

euronews:
A tale proposito e al di là del dibattito su una eventuale contrapposizione tra analogico e digitale, esiste ancora oggi un valore aggiunto dell’approccio analogico alla fotografia e, un passo oltre, cosa implica l’uso della camera di grande formato che contraddistingue il tuo lavoro?

Guidi:
È difficile rispondere a questa domanda. Diciamo che per me è stato fondamentale lavorare con l’analogico – il digitale non c’era… – ma è stato fondamentale perchè quello che volevo fare io era ritornare a un grado zero, non della scrittura ma della fotografia. Quindi ripercorrere, mettermi nei panni, nelle scarpe dei fotografi antichi, i primi fotografi, e ritrovare attraverso il loro camminare, attraverso il loro fare, il loro sguardo. L’intenzione oppure la non intenzione del loro sguardo. Anzi quello che mi interessa della fotografia dell’Ottocento è proprio la mancanza di intenzione. Ritrovare la non intenzione attraverso il loro percorso. Quindi non potevo non utilizzare dei mezzi che fossero in qualche modo consoni. Con il digitale non avrei certo potuto fare quel percorso. Questo vale per me ovviamente ma credo che possa essere condiviso da molti anche se non da tutti. Non credo che tutti siano interessati al ritorno alla cultura antica. Io mi sento in qualche modo… credo che sarei vissuto meglio nell’Ottocento che non nel Duemila, ma non tutti si sentirebbero a proprio agio vivendo nell’Ottocento. E non pretendo questo.

Certo che se Guido Guidi fosse nato veramente un secolo e mezzo fa sarebbe stato più complesso per lui diventare quel maestro del colore che invece conosciamo oggi. Perchè sebbene la fotografia delle origini, tanto quanto la pittura del ’400 e del ’500, siano per lui un riferimento obbligato, è dell’alchimia della chimica moderna che si nutre la maggior parte del suo lavoro. Un lavoro che è anche una continua riflessione sul rapporto tra l’osservazione e la percezione, tra lo scatto fotografico e l’intenzione.

euronews:
Vorrei che tu ci parlassi del ruolo che ha per te il caso nella fotografia.

Guidi:
Beh scattare “a caso” l’ho fatto tante volte. Una volta ho fatto anche un seminario con Nathan Lyons e la sua indicazione era anche di provare a fare fotografie senza guardare nella camera. In quegli anni c’erano molti di questi tentativi per provare, come dire, a coglierci in fallo. E anche in qualche modo per vedere le cose allontanandoci da qualsiasi intenzionalità. Fotografare senza sapere che cosa esattamente stai fotografando è un modo per aggirare questo ostacolo, è una scorciatoia in un certo senso. Però può essere utile anche nell’apprendimento di quelle che sono le modalità della fotografia. Scattare a caso.

euronews:
Anche perchè poi costringe alla riflessione a posteriori…

Guidi:
Sì, si potrebbe addirittura fare un esercizio da dare quest’anno ai miei studenti. Quello di fare le fotografie a caso, così, senza neanche pensare, bendati magari, non con un occhio ma con tutti e due gli occhi bendati. E poi dal risultato ottenuto magari sviluppare altre fotografie più consapevoli fino a…magari fino a ritornare a pensare che forse le fotografie fatte a caso potrebbero essere addirittura più interessanti di quelle fatte alla luce della consapevolezza. Del resto questa modalità era una modalità che aveva attuato anche Matisse. Matisse un giorno aveva provato a disegnare un volto su un foglio con il carboncino, su un grande foglio di carta. Lo ha disegnato tante volte. Poi a un certo momento si è bendato e lo ha disegnato senza guardare. Ecco però che la fotografia, pardon, lapsus, il disegno che lui ha fatto senza guardare era forse il risultato massimo di quella serie. Senza guardare. D’altra parte Georges Didi-Huberman ci dice che forse il modo migliore per guardare un dipinto (noi parliamo di fotografia ma in fondo è lo stesso) è quello di guardarlo mentre si dorme. Che è un paradosso ma potrebbe essere interessante: riuscire a vedere in modo lucido però al tempo stesso dormendo. Perchè secondo molti lo sguardo elude la percezione, esclude la percezione delle cose. Allora ritrovare la percezione profonda delle cose attraverso lo sguardo vigile è una difficoltà estrema.

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euronews:
Questo mi rimanda all’idea che per te la fotografia è in primis un processo conoscitivo.

Guidi:
Certo, non saprei cosa altro possa essere la fotografia. È un modo, un processo, per conoscere, per toccare, per identificarsi con il mondo e con le cose. Quindi il massimo punto di conoscenza è quello dell’identificazione. Io sono quell’oggetto lì. In quel momento conosci quella cosa. È vero che Proust dice a proposito di Albertine che quando Albertine si avvicina troppo per baciarlo non lo vede più allora vorrebbe avere un’amplificazione del senso della vista per continuare a vederla e al tempo stesso baciarla… Ma le due cose non potevano andare assieme.

euronews:
È una bella metafora del fotografare attraverso il vetro smerigliato di una camera di grande formato, no?

Guidi:
Sì, è un tentativo. Però c’è una battuta in un testo di Robert Musil, “Vinzenz e l’amica degli uomini importanti”, in cui lui rincontra lei e le dice beh, dài, rompiamo finalmente il vetro smerigliato che ci separa.

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euronews:
Cosa ti spinge dopo tanti anni a fotografare ancora?

Guidi:
Non si spegne la voglia perchè sono insoddisfatto, perchè si potrebbe fare in modo più preciso, ogni traguardo che raggiungi è provvisorio. È un po’ la difficoltà che ho sempre avuto nel concludere… Si è vero, una fotografia è finita: nel momento in cui l’hai eseguita è finita. Dopo ci sarà la stampa che è una sorta di modalità di redazione, di mettere a punto. Anche se non è del tutto “redazione” perchè poi la stampa può alterare il risultato anche se tu conservi rigorosamente tutto il negativo e non ne eslcudi nessuna parte. Però può essere più scura più chiara più rossa più gialla più verde più blu. Quindi qual’è quella giusta? E anche se io faccio varie stampe sono sempre indeciso se farne una più scura o una più chiara. Poi magari alla fine vanno bene tutte e due: una è più scura e una più chiara, una più rossa e una meno rossa. Poi magari, invecchiando, quella più rossa che mi piaceva di più non mi piace più perchè è diventata troppo rossa quindi mi piace di più quell’altra perchè nel frattempo è diventata un pochettino più rossa. Poi magari decido di ristamparla. Ma per ristamparla magari non ci sono più le stesse carte, quindi il risultato sarà ancora diverso. Quindi è un infinito. È come quando si mette la firma: io non la metto quasi mai la firma nella fotografia, mi sembra un controsenso perchè la fotografia non si dovrebbe toccare con le mani… Oddio, io la tocco perchè sono uno sciagurato! Però i grandi artisti della Grecia antica, Apelle, Policleto, secondo Plinio il Vecchio quando mettevano la firma scrivevano Policletus facebat, Policleto stava facendo, all’imperfetto. In una logica, in un rimando a un’idea in cui l’opera d’arte, chiamiamola d’arte, è sempre “stata iniziata” ma non è mai finita. Quindi in una figliolanza continua. Ora ci sono io che la faccio, prima di me c’era Atget che l’aveva fatto. Io in qualche modo ho aggiunto delle cose, qualcun altro ne aggiungerà delle altre. Quindi è un processo in fieri, processuale. Anche se quello è un pezzo di carta che però non è cosi fisso nel tempo, anche lui in sè medesimo è soggetto all’usura è soggetto alla luce, a una trasformazione inevitabile. Come per la strada: le case, gli edifici, sono in transito…

euronews:
Contro l’eternità…

Guido:
Esatto, contro l’eternità. Anche se io facessi la fotografia nel marmo anche il marmo si trasforma. Quindi non c’è scampo. Non c’è scampo a questa idea del tempo che trasforma. D’altra parte Calude Lévi-Strauss ci dice che quello che importa in un dipinto, in un quadro non è tanto quello che rappresenta ma quello che trasforma. E da Lévi-Strauss si potrebbe passare tranquillamente a Garry Winogrand che dice io fotografo per vedere come la realtà si trasforma in fotografia. Per vedere come la realtà si trasmuta una volta che è diventata fotografia.

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euronews:
Tra poco ritornerai in Italia, a Cesena. Cosa hai in programma di fare?

Guidi:
Beh, non lo so. Probabilmente mi riposerò oppure andrò a fotografare dietro casa: non vedo l’ora come direbbe Bruno Munari.

La mostra è visitabile a Parigi fino al prossimo 27 aprile. Da giugno a settembre si sposterà ad Amsterdam per approdare infine a Ravenna ad ottobre dove resterà fino a gennaio 2015.

Per le immagini: © Guido Guidi

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