"In Francia si è rotto il patto tra politica e cittadini"

Emmanuel Macron e Marine Le Pen in lotta per la presidenza della Repubblica
Emmanuel Macron e Marine Le Pen in lotta per la presidenza della Repubblica Diritti d'autore AP Photo/Francois Mori
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Di Samuele Damilano
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"In Francia si è rotto il patto tra politica e cittadini". Mattia Diletti, docente di Scienza politica alla Sapienza: "A livello nazionale si vince per voto utile e suscitando emozioni nell'elettorato. Ciò che non sanno più fare i partiti tradizionali".

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“La Francia è laboratorio dei processi di scollamento tra società e politica in Europa degli ultimi anni”, afferma Mattia Diletti, docente di Scienza della politica all’università Sapienza di Roma. Al secondo turno di elezioni presidenziali sarà un’altra volta sfida tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen. Il presidente uscente ha ottenuto il 27,8 per cento dei voti al primo turno, contro il 23,1 della candidata del Rassemblement National. “Si tratta di un risultato che premia la personificazoine e la polarizzazione della politica francese: a vincere non sono i partiti con una presenza forte sul territorio, ma quelli che riescono a suscitare più emozioni nell’elettorato”.

Professore, quali sono i principali fattori, dal sistema elettorale alla scomparsa dei partiti tradizionali, che hanno determinato l’esito del voto del primo turno?

L’elemento più rilevante è che sia Macron che Le Pen incarnano un rifiuto dell’establishement e della politica tradizionale che accomuna oramai la maggioranza dei francesi: i partiti hanno molta meno presa sulla società rispetto a prima, in Francia come nel resto d’Europa, dove nello scorso quinquennio abbiamo assistito all’affermazione del populismo, da Podemos e Vox, in Spagna, a Lega e Movimento 5 Stelle, in Italia. La Francia, tuttavia, è una cartina al tornasole di questo processo di destrutturazione dei partiti tradizionali: il sistema elettorale della Quinta Repubblica di Charles De Gaulle era stato pensato per favorire il pluralismo tra centrodestra e centrosinistra al primo turno, per poi avere una conversione al secondo su una figura moderata. La struttura partitica che ha sostenuto la formazione di questo sistema però è crollata. Non a caso si discute di riforme costituzionali, di nuova legge elettorale, di Sesta Repubblica.

Mentre alle ultime elezioni regionali il Partito socialista e quello repubblicano si sono spartiti i voti. Come si spiega?

In un Paese dove si vota con un sistema elettorale maggioritario a collegi uninominali, i risultati hanno premiato leadership territoriali radicate e altresì personalizzate. Ecco perché il Rassemblement national e En marche non hanno vinto in nessuna delle regioni dove si è votato. È una competizione elettorale completamente diversa, con elettorati diversi. Come in Italia, anche in Francia il voto locale ha paradossalmente una partecipazione molto scarsa (34, 69 per cento, secondo i dati del ministero dell’Interno per le elezioni regionali della scorsa estate; nel 2015 era il 58,41). Mentre alle presidenziali, nonostante un calo del 5 percento rispetto allo scorso anno, il tasso di partecipazione è nettamente maggiore. Dunque, cittadini meno motivati a livello locale, che poi “si sveglia” nella grande competizione, dove c’è più battage, più propaganda. Dove si alimentano le emozioni.

Dunque anche Macron si può dire anti estabilshement?

Il suo successo si basa sul rifiuto dei partiti tradizionali. Per quanto riguarda il suo approccio liberale sulle questioni economiche e sociali, si può inquadrare nel centrodestra. Ma il suo rapporto con la politica è quello di un tecnopopulista, che mette al centro del suo programma la competenza contro le vecchie élite tradizionali. Con la peculiarità di incarnare comunque una continuità con le classi dirigenti francesi, in particolare di centrodestra. L’ex ministro di Sarkozy riesce così a rappresentare anche un certo tipo di classe media più dinamica, con salari più alti, che si orienta più a destra senza però riconoscersi nei valori di Le Pen.

Le Pen non riuscirà quindi ad attrarre gli elettori di destra moderata al secondo turno?

La candidata del Rn è una populista di destra che ha ammorbidito la sua retorica per smarcarsi da un candidato ancora più estremista, come Éric zemmour, con cui del resto condivide il richiamo alla nostalgia, a un tempo passato in cui i salari erano più alti e c’erano meno stranieri e omosessuali. Se però si guarda alla piattaforma elettorale e ad alcuni punti del suo programma - dalla riforma costituzionale per introdurre una massima quota di immigrati, all’uscita dal comando integrato della Nato - appare del resto ovvio che non si tratti di un programma tanto moderato.

Di estremismo è stato accusato anche Melénchon, molte volte trattato sulla stampa italiana alla stessa stregua di Zemmour e Le Pen. Si trova d’accordo?

Melénchon è un politico che indubbiamente ha dei tratti radicali, sia come persona che in quanto a idee politiche, a partire dalla volontà di uscire dalla Nato. Gli va tuttavia riconosciuto un merito enorme: quello di aver rappresentato, nella campagna e nel suo programma elettorale, le necessità dei giovani (il 34% tra i 18 e i 24 anni l’ha votato, secondo un sondaggio Elabe, ndr). Trovo davvero ottuso mettere sullo stesso piano il voto di Melénchon con quello di Zemmour, con la semplice motivazione che sarebbero entrambi populisti. Allargando lo sguardo, non è un caso se Bernie Sanders negli Stati Uniti, Jeremy Corbyn in Gran Bretagna e Pablo Iglesias in Spagna, ovvero i candidati di sinistra cosiddetta “radicale”, siano quelli che hanno raccolto più consenso tra i giovani. Finché la classe dirigente liberale continuerà a derubricarli a estremismi, avremo altri Trump e Brexit. Melénchon, per colpe storiche del partito socialista e per il voto utile di molte persone, è stato l’unico candidato con possibilità di vincere a sinistra.

Il fondatore della France insoumise ha istruito i suoi elettori a “non dare nemmeno un voto a Le Pen”. Ma secondo un recente sondaggio circa il 30 per cento la voterà. Le resta qualche possibilità, benché sfavorita nei sondaggi?

Innanzitutto, “nessun voto alla Le Pen” non vuol dire “tutti i voti a Macron”. Penso che il presidente uscente, alla luce di quello che abbiamo detto prima, debba fare una campagna molto accorta, perché, anche se lo danno sopra di sei punti, nulla è scontato. Pur avendo ricevuto l’endorsement della maggioranza dei candidati perdenti, rispetto a cinque anni fa il voto utile contro peserà molto di meno nel risultato finale. Non è più la Francia che si mobilità contro l’incubo dell’estrema destra di Jean-Marie Le Pen di 20 anni fa, o di Marine nel 2017.

Quali sarebbero le conseguenze a livello europeo di una vittoria di Le Pen?

Per l’Unione europea sarebbe un disastro: il motore è franco-tedesco, faccio fatica a immaginare un diaologo Scholz-Le Pen. Non propone più di uscire dall’euro, ma i principi nazional sovranisti alla base del suo ideale politico comporterebbero un passo indietro notevole nel processo di integrazione portato avanti negli scorsi anni da Macron anche se la Realpolitik, come dimostra il caso di Giorgia Meloni in Italia, confligge spesso con gli ideali. Diciamo che la sua vittoria sarebbe una discreta bomba per la governance europea.

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