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Nigeria, 1.000 giorni senza le studentesse di Chibok

Nigeria, 1.000 giorni senza le studentesse di Chibok
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Di Andrea Neri Agenzie: Reuters, Afp
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A quasi 3 anni dal rapimento da parte di Boko Haram, circa 200 giovani mancano ancora all'appello

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1.000 giorni senza le ragazze di Chibok. Le famiglie delle ragazze nigeriane rapite quasi 3 anni fa da Boko Haram mangengono alta la pressione sul governo di Abuja perchè riporti a casa le studentesse ancora tenute in schiavitù dagli estremisti islamici. Circa 200 giovani mancano ancora all’appello.

“La risposta fornita dall’amministrazione del Presidente nigeriano Muhammadu Buhari è degna del modo in cui è stata gestita la crisi: la mancanza di sicurezza, le condizioni degli sfollati interni, le condizioni delle forze armate, la corruzione e la mancanza di governance” ha accusato Aisha Yesufu, la leader del movimento Bring Back Our Girls.

Il 14 aprile 2014, 276 ragazzine di età compresa tra i 12 e i 17 anni vengono rapite dalla loro scuola di Chibok, nel Nord-Est del Paese. Il leader del gruppo criminale Abubakar Shekau afferma che le giovani sono convertite all’Islam, costrette a matrimoni forzati e tenute in schiavitù. Il 13 ottobre scorso il Capo dello Stato Buhari ha annunciato la liberazione di 21 liceali in seguito alle trattative con i sequestratori.

Sin dal 2014 la vicenda ha calamitato l’attenzione della comunità internazionale e il 17 maggio diversi Capi di Stato africani, con l’appoggio dei governi occidentali, adottano a Parigi un piano per dichiarare guerra a Boko Haram.

Il gruppo estremista si dichiara fedele all’Islam, religione che di fatto viene strumentalizzata e ridotta a pura violenza e prevaricazione. Un gruppo la cui insurrezione ha fatto almeno 20.000 morti, tra Nigeria, Ciad e Niger, che ha rapito decine di migliaia di persone e costretto alla fuga dalle proprie case almeno 2,6 milioni di persone a partire dal 2009.

More than 2,6 million people are now displaced in the Lake Chad Basin due to #BokoHaram. Over 60% are #children pic.twitter.com/NTgUPfxxeD

— IOM (@UNmigration) 7 gennaio 2017

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