Il capo dello Stato è accusato di aver favorito attraverso i media di proprietà pubblica le cause che hanno portato alle sparatorie dello scorso maggio in cui 18 persone sono morte
In Serbia mai così tanta gente scendeva in strada dalle contestazioni di massa che portarono alla caduta del presidente Slobodan Milosevic nel 2000. Per la settima volta da maggio, decine di migliaia di manifestanti sono scesi in strada per opporsi alla "cultura della violenza promossa dal presidente Aleksandar Vucic".
La folla accusa il capo dello Stato di essere responsabile della violenza che ha portato un 13enne a sparare su nove compagni di classe e un agente di sicurezza in una scuola di Belgrado lo scorso 3 maggio, e dopo 48 ore ad altre sparatorie in tre diversi villaggi nei pressi della città di Mladenovac che hanno causato otto morti e tredici feriti.
Le proteste hanno interessato la capitale Belgrado e altre tre grandi città del Paese comeNovi Sad, Kragujevac e Nis.
Il principale bersaglio delle richieste della folla continua a essere da settimane la narrativa dei mezzi di informazione controllati dal governo serbo, che è invitato a revocare le licenze di alcuni canali televisivi colpevoli di trasmettere contenuti violenti e a intervenire contro i giornali filogovernativi che alimentano l'odio nei confronti dei dissidenti politici.
Nell'occhio del ciclone anche il ministro degli Affari interni e il capo dei servizi segreti, nei confronti dei quali i manifestanti hanno ripetutamente chiesto le dimissioni.
Da anni Vucic è accusato di usare misure sempre più autoritarie per imbavagliare l'opposizione e tenere sotto controllo i media e le istituzioni statali.Il presidente però considera le manifestazioni una strategia politica manipolata dalle potenze straniere.