L'accordo "zombie" sui lavoratori delle piattaforme digitali

In base alla direttiva proposta, oltre 5,5 milioni di lavoratori delle piattaforme potrebbero essere riclassificati come dipendenti e avere accesso ai diritti fondamentali del lavoro.
In base alla direttiva proposta, oltre 5,5 milioni di lavoratori delle piattaforme potrebbero essere riclassificati come dipendenti e avere accesso ai diritti fondamentali del lavoro. Diritti d'autore Nam Y. Huh/Copyright 2020 The AP. All rights reserved.
Diritti d'autore Nam Y. Huh/Copyright 2020 The AP. All rights reserved.
Di Jorge LiboreiroVincenzo Genovese
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Questo articolo è stato pubblicato originariamente in inglese

La direttiva europea per migliorare le condizioni dei lavoratori delle piattaforme digitali è appesa a un filo, dopo che i negoziati fra Consiglio e Parlamento si sono incagliati

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La direttiva avrebbe dovuto rappresentare un punto di svolta nella cosiddetta gig economy, con milioni di lavoratori autonomi che sarebbero stati più facilmente riclassificati come dipendenti, beneficiando di diritti di base come il salario minimo (nei Paesi che ce l'hanno), assistenza sanitaria, assicurazione contro gli infortuni e ferie retribuite.

Ma dopo sei cicli di negoziati tra il Parlamento europeo e gli Stati membri, la direttiva è stata bloccata. Una incontro tenutosi a fine dicembre, ha rivelato l'opposizione di un nutrito gruppo di Paesi al testo inizialmente emerso dai negoziati fra Consiglio e Parlamento.

Il nodo della "presunzione di dipendenza"

Francia, Irlanda, Svezia, Finlandia, Grecia e Paesi baltici hanno chiarito di non poter sostenere il testo di compromesso. "Quando si va verso regole che consentirebbero riclassificazioni massicce, compresi i lavoratori autonomi che apprezzano il loro status di lavoratori autonomi, non possiamo essere d'accordo", ha dichiarato Olivier Dussopt, allora ministro del Lavoro francese.

Ora servirà molto probabilmente un altro round di negoziati, per cui non è ancora stata scelta una data. La situazione è particolarmente precaria perché le elezioni di giugno del Parlamento europeo impongono una scadenza: bisogna concludere i colloqui interistituzionali entro la metà di febbraio.

Le obiezioni espresse riguardano soprattutto la presunzione legale di occupazione prevista dalla direttiva, uno dei pilastri della proposta.

I lavoratori possono presentare istanza di riclassificazione, e toccherà all'azienda dimostrare il contrario, in presenza di due indicatori su cinque fra quelli stabiliti: tetto massimo alla retribuzione, monitoraggio tramite app, controllo degli incarichi, imposizione di un orario di lavoro e obbligo di indossare una divisa.

La piattaforma sarebbe dunque considerata un datore di lavoro, anziché un semplice intermediario, e il lavoratore sarebbe considerato un dipendente, anziché un autonomo: l'onere della prova ricadrebbe sulla piattaforma per dimostrare che la relazione tra datore di lavoro e dipendente non corrisponde alla realtà.

Secondo le stime della Commissione, circa 5,5 milioni dei 28 milioni di lavoratori delle piattaforme attivi nell'Ue sono attualmente classificati in modo errato e dovrebbero invece avere diritto all'assunzione.

La riclassificazione potrebbe essere contestata, o confutata, sia dall'azienda che dai lavoratori stessi. 

Posizioni diverse

Fin dall'inizio, la direttiva si è rivelata controversa tra gli Stati membri, tradizionalmente protettivi nei confronti delle loro politiche del lavoro e dei loro sistemi di welfare. Prima di affrontare i colloqui con il Parlamento, i 27 Paesi avevano concordato una posizione comune che apportava notevoli modifiche alla questione della presunzione legale, ampliando i criteri a sette e aggiungendo una disposizione vaga per aggirare il sistema in alcuni casi.

Il Parlamento ha invece optato per una clausola di presunzione generale che si applicherebbe, in linea di principio, a tutti i lavoratori delle piattaforme digitali. I criteri per la riclassificazione come dipendenti entrerebbero in vigore solo durante la fase di confutazione, rendendo più difficile per le aziende aggirare il sistema. 

Il divario tra le due posizioni ha reso necessari sei round di negoziati, un numero particolarmente elevato. Alla fine il trilogo ha partorito i criteri originari: due su cinque, per presentare istanza di riclassificazione. 

"Nel complesso, il problema è che il testo non fornisce chiarezza giuridica e non è in linea con l'accordo del Consiglio", ha dichiarato un diplomatico del gruppo di Paesi che si oppongono all'accordo, a condizione di anonimato. "Proteggere i lavoratori va bene, ma la competitività dovrebbe essere salvaguardata".

Un altro diplomatico sostiene che la posizione raggiunta in Consiglio è "piuttosto delicata" e lascia uno spazio minimo alle concessioni: "Non è un dossier facile".

Accordo appeso a un filo

Al momento, manca in Consiglio maggioranza qualificata necessaria per l'approvazione: il 55% dei Paesi dell'Ue con almeno il 65% della popolazione complessiva dell'Unione. La Germania ha finora mantenuto il silenzio, interpretato come il preludio di un'astensione, che renderebbe ancora più complicato raggiungere la soglia richiesta.

Alcuni dei Paesi riluttanti ospitano alcune delle piattaforme digitali più importanti d'Europa: Bolt (Estonia), Wolt (Finlandia), Free Now e Delivery Hero (Germania). Queste aziende, insieme a Glovo (Spagna), Uber (Stati Uniti) e Deliveroo (Regno Unito), hanno creato associazioni di settore a Bruxelles e aumentato le spese di lobbying per difendere i loro interessi aziendali e influenzare la proposta di legge.

Una di queste associazioni, Move EU, ha festeggiato pubblicamente la bocciatura di dicembre, definendo la direttiva "non adatta allo scopo" e criticando aspramente la presunzione legale, sostenendo che "sovraccaricherebbe i tribunali nazionali e annullerebbe le riforme positive".

La Confederazione europea dei sindacati dichiara invece che la proposta di legge è stata "bloccata senza una buona ragione" e invita le istituzioni a chiudere il dossier. "L'accordo trovato nel trilogo era tutt'altro che ideale, ma alla fine ha portato alcuni standard di base nel settore".

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La patata bollente è ora nelle mani del Belgio, che ha assunto la presidenza del Consiglio il primo gennaio e che intende presentare una nuova posizione comune e avviare un settimo ciclo di negoziati con il Parlamento.

"Siamo molto determinati a raggiungere un accordo, ma non a qualsiasi prezzo. Perché, ovviamente, dobbiamo mantenere l'ambizione iniziale stabilita dalla proposta della Commissione", ha dichiarato la scorsa settimana Pierre-Yves Dermagne, ministro belga dell'Economia e del Lavoro.

Ma la strada è tutta in salita, con la Francia, in particolare, che si oppone fermamente alla direttiva. E se anche se il Consiglio riuscisse in qualche modo a superare gli ostacoli e a rivedere la sua posizione comune, non è detto che gli eurodeputati siano disposti a cedere e ad annacquare l'accordo di dicembre. Una sorta di "limbo legislativo" attende la direttiva, se non si riuscirà a trovare la quadra entro metà febbraio.

"Siamo ora in una situazione di stallo, con la Presidenza belga che deve conciliare posizioni così opposte che il risultato rischia di essere una direttiva molto debole", ha dichiarato Agnieszka Piasna, ricercatrice presso l'Istituto sindacale europeo.

"Se il Consiglio non cambierà la sua posizione, potremmo assistere a una soglia minima così bassa che le condizioni dei lavoratori delle piattaforme in alcuni Paesi potrebbero addirittura peggiorare".

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