L'Italia esce dalla Belt and Road Initiative della Cina, Pechino: "No a denigrazioni"

La premier italiana Giorgia Meloni
La premier italiana Giorgia Meloni Diritti d'autore Markus Schreiber/Copyright 2022 The AP. All rights reserved
Diritti d'autore Markus Schreiber/Copyright 2022 The AP. All rights reserved
Di Gabriele Barbati
Condividi questo articoloCommenti
Condividi questo articoloClose Button
Copia e incolla il codice embed del video qui sotto:Copy to clipboardCopied

Nei giorni scorsi il governo Meloni ha comunicato in una nota la decisione di non rinnovare il memorandum d'intesa in scadenza a marzo. "Manterremo buoni rapporti" assicura il vicepremier Tajani. "Condanno la decisione" dichiara a Euronews Michele Geraci, che negoziò la firma nel 2019

PUBBLICITÀ

Termina ufficialmente la partecipazione dell'Italia al progetto Belt and Road Initiative (Bri), lanciato dalla Cina nel 2013 e presto ribattezzato "Nuova via della Seta", con riferimento all'antica rete commerciale cinese con il resto del mondo.

Nei giorni scorsi l’Italia, unico paese del G7 ad avere aderito al progetto nel 2019, ha inviato una nota a Pechino in cui è stata comunicata l'intenzione di non rinnovare il memorandum d'intesa che scade a marzo.

La decisione italiana è giunta dopo un negoziato con le controparti cinesi, al punto che la premier Giorgia Meloni ha sottolineato che il governo italiano sta cercando di mantenere buone relazioni con la Cina.

"Non era un vantaggio per noi quella prospettiva. Adesso vediamo come rafforzare i rapporti. Stiamo lavorando tanto con loro. Non c'è nulla di negativo" ha dichiarato mercoledì il ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio, Antonio Tajani.

A settembre Tajani è stato in Cina per discutere la ritrosia dell'Italia alla Bri e confermare comunque il partenariato strategico tra i due Paesi iniziato vent'anni fa.

L'insoddisfazione di Pechino

"La Cina si oppone alla denigrazione e al sabotaggio dell'iniziativa. La divisione tra campi provoca separazione" ha detto giovedì il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, senza commentare direttamente la mossa dell'Italia e il possibile impatto sulle relazioni bilaterali.

Wang ha ricordato, durante la conferenza stampa quotidiana del ministero a Pechino, che 150 Paesi "inclusa l'Italia" hanno partecipato al terzo Forum Bri di metà ottobre.

Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin durante una conferenza stampa a Pechino
Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin durante una conferenza stampa a PechinoMark Schiefelbein/Copyright 2023 The AP. All rights reserved

La Bri è stata avviata poco dopo l'inizio della presidenza di Xi Jinping per rafforzare l'economia e il peso internazionale della Cina attraverso una rete di infrastrutture, investendo in dighe, ferrovie, strade e logistica nel resto del mondo.

Il progetto è stato attaccato negli anni da più parti per il rischio "neo-coloniale" insito negli investimenti cinesi, che spesso si sostanziano in progetti di scarsa qualità o in enormi prestiti che i paesi coinvolti faticano poi a restituire.

La contesa politica in Italia sulla Nuova via della Seta

Già in campagna elettorale e dal suo insediamento a Palazzo Chigi a ottobre dello scorso anno, Meloni aveva sostenuto le critiche all'adesione italiana e le reazioni fredde di Bruxelles e Washington.

Le critiche andavano dalle accuse di un riposizionamento filo-cinese dell'allora esecutivo Conte-uno nei rapporti internazionali allo scarso vantaggio ottenuto dalle imprese italiane in termini di esportazioni verso la Cina e dunque di guadagno.

"L'intesa non prevedeva alcun obbligo da parte dei due governi. Le aziende italiane potevano aderire su base volontaria. Perché dunque non dare questa possibilità a chi volesse ancora utilizzare questo strumento?" si domanda Michele Geraci, sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico dal 2018 al 2019 e uno dei principali negoziatori del memorandum.

Secondo Geraci, l'Italia ha ottenuto in realtà vantaggi economici significativi in questi anni, un "motivo in più per condannare questa decisione".

"Mi sembra curioso analizzare i benefici in tempi di Covid e guerra. In ogni caso dal 2018 al 2022 l'export italiano verso la Cina è aumentato dell'11%, molto di più di Francia e Germania" dice Geraci. "Senza considerare che abbiamo anche importato più prodotti cinesi, con l'effetto di abbassare l'inflazione e di acquisire prodotti che servono alla nostra industria manifatturiera ma che l'Italia non produce più".

I dati ufficiali sull'interscambio indicano che lo scorso anno le esportazioni italiane verso la Cina sono state pari a 16,4 miliardi di euro, rispetto ai 13 del 2019. Le importazioni dalla Cina sono aumentate invece a 57,5 miliardi da 31,7 nello stesso periodo.

Geraci dice a Euronews di avere provato, a più riprese negli ultimi mesi, a convincere Antonio Tajani a cambiare idea.

"Gli ho suggerito di rinnovare il memorandum aggiungendo un paragrafo che dichiarasse come l'intesa non costituisse alcuno scostamento dell'Italia dalla politica atlantica e dalla Nato. I cinesi hanno preso molto male questa decisione dell'Italia. Tanto che hanno chiesto di farlo per iscritto e non informalmente come intendeva Meloni" conclude Geraci.

L'ex sottosegretario, dopo l'esperienza politica nel governo Cinque Stelle - Lega, è tornato al suo ruolo di economista presso l'Università di Nottingham in Gran Bretagna e al New York University campus di Shanghai. Il 27 novembre ha partecipato però a Roma al lancio di Indipendenza!, il nuovo movimento politico fondato da Gianni Alemanno e Marco Rizzo.

Condividi questo articoloCommenti

Notizie correlate

Investimenti in Africa: subito 4 miliardi di euro dalla Germania. Ma la Cina sembra irraggiungibile

Gli accordi dell'Ue con il Sud globale per contrastare la Cina

Usa-Cina, Blinken incontra Xi Jinping a Pechino: Gestiamo responsabilmente le differenze