Roma, case anti-violenza sotto sfratto: la sindaca donna "che non si cura delle donne"

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Diritti d'autore AP
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Di Elena Kaniadakis
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Le attiviste accusano la sindaca Virginia Raggi di avere gettato la spugna nella lotta contro la violenza di genere. Due Case per le donne a Roma rischiano infatti, ogni giorno, la chiusura.

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Per la prima volta da molti anni, l’8 marzo le strade del centro di Roma non si sono riempite degli striscioni colorati del movimento femminista Non una di meno. La manifestazione per la Festa della Donna è stata cancellata dalle misure di sicurezza imposte dal governo per fronteggiare l’emergenza del coronavirus.

Ma alcune attiviste si sono radunate spontaneamente e “a distanza di sicurezza” in piazza di Spagna per fare sentire comunque la loro presenza. Le attiviste accusano la sindaca Virginia Raggi – prima donna eletta a questa carica nella storia della città – di avere gettato la spugna nella lotta contro la violenza di genere. Due Case per le donne a Roma rischiano infatti, ogni giorno, la chiusura.

Si tratta della “Casa internazionale delle Donne” e della casa occupata “Lucha y siesta”. “Il fatto che tutto questo stia accadendo durante il governo di una sindaca ci ricorda che, purtroppo, essere donna non è garanzia di essere femminista” commenta Marita, un’attivista di Lucha y siesta.

Il giardino della Casa internazionale delle donne. Foto: Elena Kaniadakis

25 posti letto in una città di 3 milioni di persone

La “Casa internazionale delle donne”, nel quartiere Trastevere, non riesce a pagare più l’affitto mensile richiesto dal comune, mentre l’immobile in cui si trova la casa rifugio “Lucha y siesta”, nel quartiere Tuscolano, sta per essere messo all’asta per risanare i debiti del comune. “Ad oggi le donne che fuggono dalla violenza domestica nella città hanno 25 posti letto pubblici a loro riservati, in una città che è popolata quasi da 3 milioni di persone” racconta Marita.

“Eppure, la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne del Consiglio d’Europa, firmata anche dall’Italia, ne raccomanda uno ogni diecimila abitanti” continua l’attivista.

14 posti letto erano messi a disposizione solo dalla Casa di Lucha y siesta; 15 donne vivevano qui a fine febbraio con sette bambini. Oggi ne rimane soltanto un piccolo gruppo, mentre le altre sono state trasferite dal comune in case-famiglia già esistenti sul territorio e dall’indirizzo segreto. “Ogni giorno apriamo i cancelli della Casa in un presidio permanente, per evitare che la casa venga sgomberata” raccontano le attiviste.

8. I cartelli dei nomi delle associazioni ospitate nella Casa internazionale delle donne. Foto: Elena Kaniadakis

La casa, come si legge nei manifesti affissi sulle pareti, nelle intenzioni di chi la abita è di tutte, ma di fatto è di proprietà dell’Atac, l’azienda dei trasporti del comune di Roma. 

Nel 2008, l’edificio, abbandonato, viene occupato da alcune donne del quartiere che decidono di creare una casa per le vittima di violenza, ma anche un centro culturale. In più di dieci anni la Casa ha dato un letto a 140 donne e ne ha aiutate più di 1200. Nonostante la casa fosse occupata, la sua attività è sempre stata riconosciuta dal comune.

"Ora che il comune deve fare cassa, il nostro lavoro non viene più riconosciuto"

“Più volte la polizia o gli assistenti sociali ci hanno chiamato per ospitare donne vittime di violenza che non sapevano dove andare” raccontano le attiviste di Lucha y siesta. “Ma adesso che il comune ha bisogno di fare cassa, il nostro lavoro non viene più riconosciuto. La sindaca non capisce che combattere la violenza domestica vuol dire offrire molto più di un posto letto. In dieci anni abbiamo costruito una famiglia: radicata sul territorio, con un progetto a lungo termine di reinserimento sociale” spiegano le attiviste. “In molte altre case rifugio puoi transitare per sei mesi, e poi? Così è impossibile costruire un percorso duraturo nel tempo”.

Gemma Guerrini, consigliera comunale del Movimento 5 Stelle, commenta: “Nel caso di Lucha y siesta il comune non ha interrotto un bel niente: si tratta di una occupazione abusiva tollerata da altre amministrazioni. Noi siamo stati i primi ad adoperarci per trovare una valida alternativa per le donne coinvolte. Stiamo solo facendo rispettare la legge: questa è l’amministrazione Cinque Stelle”.

“L’impegno del Comune nella lotta contro la violenza domestica non può essere rappresentato da un’unica realtà come quella di Lucha y siesta – continua la consigliera - l’amministrazione è impegnata su tutti i fronti nelle politiche sociali. Stiamo lavorando per fare sì che in ogni municipio ci sia una casa aperta di pronto soccorso per le donne in difficoltà e ci impegniamo per garantire costantemente servizi di supporto come centri di ascolto nelle farmacie comunali”.

La Regione Lazio ha proposto di comprare all’asta la casa per restituirla alle attiviste e non chiuderla. Ma la giunta della Raggi non ha appoggiato la soluzione, sostenendo che l’esito dell’asta è incerto, mentre alle donne portate via dalla Casa va garantito un futuro sicuro.

L'altra Casa delle donne che rischia la chiusura

Nel frattempo, la storia di Lucha y siesta non è l’unica. Un altro storico centro femminista di Roma rischia di chiudere, la Casa internazionale delle donne, nel centro storico della città. “La casa nel 600 era una prigione femminile, oggi è un luogo vissuto dalle donne per le donne” racconta Maura Cossutta, presidente dell’associazione.

L’edificio è proprietà del comune, che chiede alla Casa un affitto mensile di circa 7mila euro: una cifra che la Casa non si può permettere. “Negli ultimi anni abbiamo pagato circa 2mila euro al mese, e ora abbiamo accumulato un debito che il comune di Roma non accetta di risanare” spiega Cossutta. “Rischiamo lo sfratto ogni giorno, ma altro che debito: considerati tutti i servizi che offriamo gratuitamente alle donne, siamo noi che dovremmo essere in credito con il comune” racconta. “Abbiamo incaricato un perito di valutare il valore annuo dei servizi che offriamo: si aggira intorno ai 700mila euro”.

Trenta associazioni che si battono per i diritti delle donne hanno sede nella Casa. Tra questa, Be Free, che nel centro di permanenza per il rimpatrio di Ponte Galeria incontra donne vittime di tratta. “Le aiutiamo a ottenere il diritto di asilo e a inserirsi nel mondo del lavoro” racconta a Euronews la presidente dell’associazione Oria Gargano.

“La storia di queste ragazze è, drammaticamente, sempre la stessa. Vengono quasi tutte dalla Nigeria, sono le prime figlie di una famiglia povera e numerosa. Per questo vengono mandate in Europa e costrette a prostituirsi già in Libia prima di imbarcarsi” spiega Gargano.

Manifestanti di Non una di meno nel centro di Roma nel 2019. Foto: Elena Kaniadakis

“In Italia nei Cas vengono raggiunte da alcuni ragazzi con il cappelletto nero, sono gli emissari dello sfruttatore. Una volta reclutate vengono costrette a prostituirsi, anche a 5 euro al giorno, per ripagare il debito del viaggio” continua la presidente.

La storia delle Casa inizia alla fine degli anni 80, quando un movimento femminista romano la occupa; poco dopo il comune stipula una convenzione con l’associazione. Ma l’edificio rimane di sua proprietà, e con l’arrivo della sindaca Raggi la giunta si adopera per la messa al bando della struttura e il risanamento del debito.

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Euronews ha contattato l’assessore alla Persona di Roma per commentare la situazione delle due Case, ma il Comune non ha risposto.

Ermanno Paradisi, consigliere pentastellato del municipio in cui si trova la Casa delle donne, commenta: "Il tema è complesso. Da una parte esiste la reale necessità per il comune di rientrare nel possesso di alcuni beni e sanare il debito pregresso accumulato negli anni, dall'altra quello di salvaguardare la funzione fondamentale delle case”.

“Trovare un accordo con le attiviste che tenga conto di entrambi gli obiettivi è difficile. Le vicende purtroppo vengono strumentalizzate, come se il M5S fosse contrario alla funzione sociale dei centri quando non è così” aggiunge Paradisi.

Per Sara Lilli, consigliera del Pd nel primo municipio, “È paradossale che la sindaca donna non si preoccupi delle necessità delle donne. Ma la cosa più importante è che la sindaca non è una brava sindaca: si comporta come una amministratrice e non come una politica”.

“Crede che mettere al bando le attività sia una panacea, ma non puoi mettere al bando un’idea” racconta Lilli. “Va studiato un modello che consideri i servizi delle associazioni utili per la città come parte del pagamento dell’affitto. Per farlo, però, è necessaria una visione politica che la Raggi non ha”.

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