Trattativa Stato-mafia, Di Matteo: "Ha incentivato intento stragista"

Trattativa Stato-mafia, Di Matteo: "Ha incentivato intento stragista"
Di Sabrina Pisu
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Intervista- del 28/10/2014 di Sabrina Pisu

Per la prima volta un presidente della Repubblica è stato ascoltato nell’ambito della cosiddetta trattativa Stato-mafia. Trattativa che prese inizio con i contatti del Ros alla revoca del 41 bis ai capimafia. Il 12 marzo del ’92 l’omicidio di Salvo Lima in Sicilia. Si spezza l’equilibrio tra mafia-politica. Le stragi di Capaci e via D’amelio insanguinano la Sicilia e l’Italia tutta. Totò Riina scrive il suo “papello”, le richieste di Cosa Nostra per far cessare la strategia stragista in cambio di benefici di legge. Nel ’93 i carabinieri arrestano dopo 24 anni e 7 mesi di latitanza Totò Riina. Una cattura definita “strana”. Il magistrato Nino Di Matteo dal ’99 indaga sulle stragi di mafia.

In un’intervista in esclusiva per Euronews, Sabrina Pisu ha incontrato nel carcere dell’Ucciardone a Palermo il magistrato Nino Di Matteo, che indaga sulla trattativa Stato-Mafia sulla quale è stato chiamato a deporre come testimone il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il processo si sta svolgendo nell’aula Bunker dove nel 1986 si è aperto il primo grande processo alla mafia dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che si è chiuso un anno dopo con 19 ergastoli, tra cui Totò Riina e Bernardo Provenzano. Nel 1992 Falcone e Borsellino, a 56 giorni di distanza l’uno dall’altro, pagarono con la loro stessa vita la lotta alla mafia. Ventidue anni dopo il capo dei capi di Cosa Nostra Totò Riina ha emesso dal carcere di Opera, a Milano, la sua sentenza di morte contro il magistrato Nino Di Matteo che tenta di fare luce sull’epoca più buia delle Stragi in Italia, quella del 1992-‘93.

Il processo sulla trattativa ovvero lo Stato che processa se stesso. Lo Stato è disposto ad autoaccusarsi di reati così gravi?
‘‘Il nostro sistema costituzionale è connotato soprattutto dalla regola fondamentale dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Quando emergono elementi concreti, come è successo negli anni scorsi, lo Stato deve avere il coraggio di approfondirli e di far venire fuori eventuali responsabilità dei suoi rappresentanti. Questo è certamente un processo particolare che riguarda un’epoca assolutamente tragica nella storia della nostra Repubblica. Il processo mira a capire se negli anni che vanno dalla fine del ’91 fino al ’94 Cosa Nostra abbia usato le bombe per intimidire lo Stato e indurlo a delle scelte di minore rigore repressivo nei confronti dell’organizzazione mafiosa e se uomini dello Stato si siano fatti, in qualche modo, intermediari di questo ricatto di Cosa Nostra nei confronti dello Stato. È un processo in cui gli uomini dello Stato non sono coinvolti per il fatto di avere trattato ma per il fatto di avere, così come noi riteniamo nell’ipotesi di accusa, svolto un ruolo di intermediari nel ricatto. Credo che uno Stato e una giustizia che vogliano essere credibili non debbano avere paura di affrontare queste tematiche.’‘

Questa trattativa ha frenato o moltiplicato le stragi?
‘‘Ci sono delle sentenze anche definitive che sono state emesse dalla Corte di Assise di Firenze che fotografano un dato oggettivo. Quando Cosa Nostra ha avuto la sensazione di essere cercata da uomini dello Stato, eventualmente per mediare, piuttosto che ritirarsi ha moltiplicato il suo intento stragista, l’intensità del suo intento stragista. La mafia, a un certo punto, ha cominciato a capire che gli attentati eccellenti, le bombe pagavano, erano utili perché lo Stato, andando a cercare la controparte, dimostrava di cominciare a piegare le ginocchia. Cosa Nostra, in particolare Totò Riina, ha capito che quella delle bombe potevano essere la strategia giusta per costringere lo Stato a venire a patti. Io credo che la storia, non solo giudiziaria, dovrebbe insegnarci che con Cosa Nostra, e con le organizzazioni mafiose in genere, non si può mai cercare una qualsiasi forma di dialogo perché dialogare con la organizzazione mafiosa significherebbe riconoscerle una struttura e una sostanza di controparte che un’organizzazione mafiosa non deve mai avere. Le strade della mafia e dello Stato non si devono mai incontrare. Lo Stato si deve muovere solo per reprimere l’organizzazione mafiosa con i mezzi che la Costituzione e la legge conferiscono alla magistratura e alle forze dell’ordine.’‘

Questo processo rischia di arenarsi in quelli che lei chiama “silenzi complici” o di fermarsi, sempre per usare le sue parole, davanti a un enorme muro di “omertà di Stato”?
‘‘Le indagini e il processo sono ovviamente difficili, ma il dibattimento sta andando avanti con grande serenità e serietà. C‘è una grande volontà di approfondimento da parte della Corte, di noi pubblici ministeri e anche degli avvocati. Nelle fase delle indagini, secondo noi del pubblico ministero, non tutti hanno detto tutto quello che sapevano, alcuni hanno mentito, altri hanno cominciato a esternare le loro conoscenze soltanto con grande ritardo rispetto ai fatti che avevano conosciuto e molti soltanto dopo che della vicenda, della trattativa, avevano iniziato a parlare mafiosi come Spatuzza o figli di mafiosi come Massimo Ciancimino. Il processo sta andando avanti con grande rigore e grande sforzo di approfondimento da parte di tutte le parti processuali e con l’autorevole conduzione della Corte di Assise che vuole conoscere e valutare i fatti. Speriamo che tutti quelli che sanno, eventualmente sanno, sia nel processo sia nel corso delle indagini di approfondimento che la Procura di Palermo continua a condurre, si facciano avanti per dire tutto quello che sanno”.

Quanto è grande il “processo al processo” che tenta di delegittimare l’impianto accusatorio?
‘‘Fin dall’inizio dell’indagine non sono mancate le critiche, e quelle sono legittime, all’impianto accusatorio, all’ipotesi di accusa. Gli attacchi sono però una cosa diversa rispetto alle critiche. Abbiamo subito, alcune volte, anche degli attacchi strumentali, abbiamo sopportato accuse di ogni tipo. Noi rimaniamo sereni perché siamo consapevoli che il nostro fine è soltanto quello di cercare di accertare la verità e che nessuno può dirci che abbiamo violato le regole del diritto, in qualsiasi momento delle indagini o del processo.’‘

Che effetto le fa sentire giustificata da alcuni intellettuali o giuristi la trattativa come necessaria nel 1992 -‘93 in un periodo di stragi per l’Italia?
‘‘In questo caso si prescinde dal giudizio del pubblico ministero e si sconfina in una valutazione di tipo etico. Credo che in nessun caso e per nessuna ragione, in nessuna condizione, lo Stato possa venire a patti con la mafia. Se ciò avesse fatto, se ciò facesse o se ciò facesse in futuro, tradirebbe la memoria di quei tanti che per contrapporsi alla mafia hanno sacrificato la loro vita. Devo rilevare da un punto di vista più oggettivo, di carattere storico, che la trattativa, se c‘è stata, ha probabilmente salvato la vita ad alcuni politici ma ha causato la morte di altri cittadini italiani”.

Si tenta spesso di delegittimare il processo dicendo che si tratta di fatti del passato. La ‘‘trattativa’‘ riguarda solo il passato dell’Italia, oppure è ancora attuale e regola le dinamiche più profonde?
‘‘Sono fatti del passato ma se lo Stato, nel passato, fosse venuto a patti con Cosa Nostra e oggi non avesse la forza di far venire fuori quelle vicende, Cosa Nostra conserverebbe per sempre nei confronti dello Stato un potere pericolosissimo, il potere di ricatto nei confronti delle istituzioni. Per quanto distanti nel tempo, sono fatti che devono essere approfonditi proprio per evitare che ora e in futuro l’organizzazione mafiosa possa esercitare questo terribile potere di ricatto”.

Come pool antimafia temete una nuova stagione di stragi?
‘‘Non voglio esprimere giudizi o valutazioni, faccio soltanto una considerazione di carattere storico. Ci sono stati dei momenti, anche nel passato, in cui si era ritenuto che Cosa Nostra fosse sostanzialmente un fenomeno del passato per l’arresto di molti esponenti mafiosi, dei capi dell’organizzazione. Poi, purtroppo, a questi momenti è sempre seguita invece una ricompattazione dell’organizzazione mafiosa e un accrescimento della potenza anche nei confronti dello Stato. La Storia della mafia è fatta di momenti di apparente calma, momenti di apparente difficoltà e poi di improvvisi ritorni alla strategia stragista. Io non credo che ci siano gli elementi per ritenere definitivamente superato il pericolo di un ritorno di strategia di violento attacco allo Stato”.

Questo vuol dire che la minaccia delle bombe può essere ancora utilizzata da Cosa Nostra, che la trattativa potrebbe riaprirsi o non essersi mai chiusa? “Voglio solamente dire che guai se lo Stato sottovalutasse la capacità di Cosa Nostra, come ha più volte dimostrato nel passato, di riorganizzarsi anche nel senso dell’attacco violento allo Stato”.

Totò Riina la vuole morto. Perché al capo dei capi, autore di delitti efferati e di stragi come quella di via d’Amelio e Capaci , fa paura questo processo per il quale rischia una pena bassa rispetto a quelle a cui è abituato?
‘‘Le intercettazioni sono lì, fanno parte del dibattimento, sono ascoltabili anche con le riprese video. Le intercettazioni fanno costatare oggettivamente come quello che è stato lo stragista più pericoloso della storia delle organizzazioni mafiose in Italia, e forse non solo in Italia, ancora adotterebbe questa linea. Per il resto mi consenta di non fare ulteriori riflessioni e valutazioni”.

Perché avete ritenuto opportuno chiamare il Presidente della Repubblica come testimone?
‘‘Noi abbiamo spiegato alla Corte le ragioni della pertinenza, della rilevanza della testimonianza del Capo dello Stato. La Corte di Assise ha ritenuto pertinenti e rilevanti quegli argomenti e quindi andremo a porre alcune domande al Capo dello Stato. Il capitolato di prova che è stato ammesso è una lettera che il consigliere D’Ambrosio gli indirizzò il 18 giugno del 2012, lettera nella quale esternava il timore di essere stato utilizzato nel periodo che va dal 1989 al 1993, che è quello che interessa il processo che è in corso, come “utile scriba per coprire indicibili accordi”. Questo è il capitolato di prova, la Corte di Assise, non soltanto il pubblico ministero, lo ha ritenuto rilevante. Il Codice prevede, l’articolo 205, che il Presidente della Repubblica possa essere sentito come testimone e ne prevede le modalità. Credo che tutto finora si sia svolto esclusivamente secondo una stretta applicazione delle regole del diritto. Questo fino alla fine del processo continuerà a connotare sempre l’attività del pubblico ministero e della Corte d’Assise”.

Che effetto vi ha fatto come pool antimafia essere accusati di aver ‘‘ricattato’‘ o ‘‘umiliato’‘ il Capo dello Stato sia in merito a questa testimonianza che anche alle intercettazioni telefoniche?
‘‘Noi siamo assolutamente sereni perché sappiamo che la verità dei fatti è tutt’altra. Non abbiamo mai, nei confronti di nessuno, inteso perseguire altro obiettivo che la ricerca della verità secondo un’applicazione rigorosa delle regole del diritto e del codice. Siamo anche orgogliosi di essere riusciti a rispettare la legge e a farla rispettare dai nostri collaboratori. Non è mai uscita una sola sillaba di quelle intercettazioni, sia prima che dopo la loro distruzione. Questo dimostra che l’intento è sempre stato solo quello di cercare di perseguire la verità e approfondire dei fatti, quelli accaduti nel 1992 e ’93, che sono legati alle pagine più buie, anche dal punto di vista dell’aggressione della criminalità organizzata, del nostro Paese”.

Lei ha sempre parlato della necessità di un cambio di approccio politico alla questione della criminalità organizzata.
‘‘È stato fatto tanto per aggredire meglio la criminalità organizzata ma adesso siamo in un momento in cui dovremmo fare veramente il salto di qualità. Bisogna aggredire non soltanto l’aspetto militare delle organizzazioni mafiose ma anche e soprattutto i fenomeni di collusione che ci sono stati e ci sono tra la mafia e la politica, tra la mafia e l’imprenditoria, tra la mafia e la pubblica amministrazione. Per fare questo ci vorrebbe un approccio anche politico diverso. È necessario rendere, ad esempio, più incisiva la lotta alla corruzione o il contrasto allo scambio politico-elettorale mafioso. La lotta alla mafia e la lotta alla corruzione non si possono ritenere due cose diverse, perché è proprio attraverso la corruzione e gli altri reati tipici dei pubblici amministratori che le mafie riescono a penetrare le pubbliche amministrazioni e gli enti locali, le istituzioni politiche. Se non si arriverà a una legislazione veramente efficace e rigorosa per reprimere i fenomeni di corruzione, io temo che non si arriverà mai alla recisione dei rapporti tra la mafia e le istituzioni”.

Lei ha avuto a volte la sensazione di aver messo le mani, per dirla con le parole di Falcone, in un ‘‘gioco troppo grande’‘?
‘‘L’esperienza professionale di un pubblico ministero, specialmente dopo tanti anni, porta a una considerazione banale ma purtroppo molto concreta. Il livello delle difficoltà delle indagini anti mafia, e dei pericoli di inquinamento, di delegittimazione e di depistaggio, cresce man mano che si passa dall’indagine di mafia tradizionale a un’indagine che riguarda i rapporti alti e altri della mafia. Questo tipo di indagini, se vogliamo usare le parole di Falcone, si affacciano sul gioco grande del potere in Italia. Sono d’accordo con quello che Giovanni Falcone diceva molto più autorevolmente e cioè che sono le indagini e i processi più difficili, quelli per i quali effettivamente al pubblico ministero è richiesto un supplemento di impegno, di correttezza e di assunzione di rischio di inimicarsi oltre ai mafiosi, altri apparati, altri potenti”.

Lei ha detto che fare il magistrato in questo modo non paga neanche in termini di carriera, che cosa premia invece?
‘‘Questo è un discorso che prescinde dalle inchieste che si conducono, dai processi in cui si è parti. Da magistrato credo profondamente che anche nell’attribuzione degli incarichi, dei direttivi, nella carriera di un magistrato, gli organismi di autogoverno debbano finalmente e definitivamente abbandonare i criteri dell’appartenenza correntizia del magistrato. Dovrebbe essere valorizzato un altro criterio che è non soltanto quello della professionalità e dell’esperienza, ma anche quello della dimostrazione di indipendenza dagli altri poteri. Credo che la funzione designata dalla Costituzione alla magistratura, e alla figura del magistrato, sia quella del magistrato indipendente che nell’adottare delle decisioni, nel prendere determinate iniziative, non valuti il criterio dell’opportunità ma quello della doverosità. Da questo punto di vista, ritengo che debba essere valorizzato il magistrato indipendente e non quello vicino all’una o all’altra corrente della magistratura o addirittura vicino in qualche modo alla politica”.

Falcone ha denunciato la solitudine e gli attacchi anche dentro la magistratura. A lei è capitato di vivere una condizione del genere?
‘‘Preferisco non rispondere. Fare il magistrato è sempre una cosa molto bella e molto esaltante, proprio per la figura di garanzia dei diritti che il magistrato deve assumere di fronte ai diritti di tutti. E forse anche per questo, perché si è molto appassionati, innamorati del ruolo, che quando si ha qualche delusione all’interno della propria categoria pesa particolarmente”.

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Lei vive sotto scorta da venti anni, cosa la spinge ad andare avanti?
‘‘La consapevolezza che faccio il mestiere che volevo fare quando ho intrapreso gli studi di giurisprudenza e mi occupo delle cose che mi appassionavano fin da quando ero un semplice studente”.

È possibile come dicevano i giudici Falcone e Borsellino non lasciarsi condizionare dalla paura?
‘‘Paolo Borsellino diceva che non è credibile che il magistrato in certi momenti non provi paura. La frase di Borsellino che penso e ricordo con particolare emozione è che il coraggio non consiste nel non aver paura ma nel far prevalere la consapevolezza di andare avanti con la testa alta, senza farsi condizionare. Un magistrato che si facesse condizionare anche dal timore di ritorsioni o vendette nei suoi confronti non potrebbe più svolgere la funzione di magistrato”.

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