Covid-19: chi decide di donare il plasma e perché. Marta e Francesca ci raccontano la loro storia

Covid-19: chi decide di donare il plasma e perché. Marta e Francesca ci raccontano la loro storia
Diritti d'autore Arnulfo Franco/Copyright 2020 The Associated Press. All rights reserved.
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Di Cecilia Cacciotto
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Marta e Francesca ci hanno raccontato la loro storia. Le loro motivazioni sono diverse, alla base però lo stesso slancio di generosità. Da Pavia intanto ci sono giunte le ultime notizie sulla banca del plasma

Patente d'altruismo

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Che cosa hanno in comune Marta (nome di fantasia) e Francesca? Sono entrambe lombarde, Marta è originaria di una delle province lombarde maggiormente colpite dalla crisi dovuta a Covid e Francesca è di Sondrio. Entrambe hanno deciso di voler donare il plasma per contribuire alla ricerca per il Covid-19.

Marta è guarita da Covid-19, a fine maggio, come certificato da due tamponi negativi fatti a distanza di 48 ore, Francesca teme di averlo avuto, ha fatto due settimane a letto a casa con una febbre che le ha causato perdita del gusto e dell'olfatto dal 12 marzo fino alla fine del mese. A oggi non sa se ha avuto l'infezione data da Covid.

La volontà di fare questa donazione di entrambe è solo un primo passo: perché vada a buon fine ci sono tutta una serie di variabili da calcolare.

L'etica pragmatica della solidarietà di Francesca

Francesca B., 50 anni, libera professionista. La solidarietà per lei si trasforma in etica pragmatica: la donazione del plasma è solo una delle cose che fa per gli altri.

"Lo faccio da una vita, inizialmente donavo il sangue, ma essendo carente in ferro ho ovviato con il plasma".

Il 4 marzo è stata sollecitata dall'ospedale di Sondrio. "Dovevo donare il plasma la settimana prima, ma non stavo bene. Il 4 marzo in Lombardia eravamo già in piena crisi e non me la sentivo di andare a fare la donazione. Mi hanno pregata, mi hanno detto che avrebbero usato tutte le precauzioni del caso e che non correvo alcun pericolo".

Francesca va a donare il plasma, circa una settimana dopo, il 12 marzo, è a letto da quella che lei sospetta essere una banale influenza.

"Beh, ovvio che ci ho pensato, tanto che per alcuni giorni ho deciso di non dormire con mio marito e di usare il bagnetto".

Francesca è stata male per due settimane. "Graziaddio tutto è finito lì, eppure a me il dubbio è rimasto. Quante persone mi hanno toccata quel 4 marzo e allora nessuno ancora portava la mascherina!".

Lo scorso 26 maggio è andata nuovamente in reparto per donare il plasma.

"La mia idea era fare il test sierologico, per sapere se effettivamente posso dare l'etichetta Covid a quanto ho avuto".

La sorpresa di Francesca è stata grande.

"Non solo il reparto era cambiatissimo,  questa volta tutti erano bardatissimi. Ma la mia richiesta di fare il test sierologico è stata assecondata solo per metà".

E' stato fatto il prelievo di sangue, tre boccettine, che poi "mi è stato spiegato verranno congelate. Appena la Regione Lombardia darà l'okay si procederà con le analisi. Mi hanno spiegato infatti che al momento hanno la precedenza gli ex malati conclamati. Noi donatori abbiamo, sì, una corsia preferenziale ma questa corsia deve essere ancora aperta".

Per cui lo slancio di Francesca di donare il plasma al momento resta in parcheggio.

"In parcheggio, appunto, perché  mi hanno detto che se risultasse che ho passato il Covid e che   l'ho fatto in modo quasi asintomatico posso avere degli anticorpi idonei per essere usati nella terapia del plasma iperimmune". Francesca ancora aspetta.

**Un giuramento di Ippocrate da onorare. Tutti i giorni **

Il verdetto invece è inequivocabile per Marta laureata in Medicina e una specialità ancora da ultimare.

Marta è originaria di una delle province lombarde più martoriate dall’epidemia . Nei giorni in cui Covid-19 circola - liberamente e inosservato – Marta è in corsia. Ovviamente non sa niente, o meglio sa quello che sapevamo tutti, ci sono due casi di Covid, si tratta di due cinesi, che sono stati isolati e sono ricoverati allo Spallanzani.

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Come tutti gli italiani anche Marta segue -forse meno distrattamente di altri però- le cronache dallo Spallanzani.

Un suo paziente si ammala di polmonite intorno al 20 febbraio. E dopo aver rilevato la resistenza a diverse terapie, gli viene fatto un tampone.

L'uomo risulta positivo. E la sirena d'allarme suona per tutto il reparto.

"Io mi sentivo strana da diversi giorni, la sera la temperatura saliva a 37,5 inspiegabilmente e mi sentivo debole, stanca". 

Un primo test non rileva niente, poi i sintomi si fanno più definiti, la febbre sale, Marta ha tosse e difficoltà respiratorie. La diagnosi se la fa da sola, prima che il secondo tampone dia il responso definitivo.

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"Sono rimasta in casa quasi 3 mesi".

Tra impotenza e un inspiegabile senso di colpa. Perché una cosa è limpida: la sua laurea Marta la mette al servizio degli altri  e il giuramento di Ippocrate non è stata una semplice formalità.

"Ecco allora che una volta guarita, cioè dopo aver fatto altri due tamponi che sono risultati negativi, ho deciso di donare il plasma per contribuire alla creazione della banca del plasma".

Marta ha sentito questa necessità per mettere a tacere i suoi sensi di colpa?

"Voleva essere il mio modo di dare un contributo alla lotta contro Covid".

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Invece, il suo plasma non è ricevibile perché appena sotto la soglia minima per numero di anticorpi.

E questo la dice lunga su Covid e sugli anticorpi che un ex malato può avere.  

Come sono passati i due mesi di isolamento a casa? "La cosa che maggiormente mi ha pesato è averla passata ai miei: mia mamma, mio papà e mio nonno. Oggi possiamo raccontarlo, ma essendo noi proprio nell'epicentro della pandemia lo scorso marzo ed essendo io un medico, è ovvio che abbiamo pensato a tutte le possibili evenienze. Tra le altre, quello di trattare in casa il nonno, 90 anni, nel caso la situazione fosse volta al peggio.

L'unico scenario che Marta non ha preso in considerazione è di rivolgersi all'ospedale per un ricovero. E oggi che può raccontarci cosa è accaduto, può dire serenamente di aver fatto la scelta giusta.

La donazione del plasma e il suo stoccaggio comunque procede e il bilancio è positivo, stando alle notizie che abbiamo da Pavia uno dei centri lombardi della sperimentazione

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A che punto è il progetto della banca del plasma?

Lo scorso 11 maggio la Regione Lombardia ha lanciato il progetto della banca del plasma iperimmune con l'obiettivo di stoccare il plasma che abbia una concentrazione di anticorpi sufficiente per trattare i pazienti  malati di Covid. Nei giorni più bui della pandemia, infatti, al Carlo Poma di Mantova  come al San Matteo di Pavia è partita la sperimentazione del plasma iperimmune che ha dato esiti eccellenti.

Da Pavia, Carlo Nicora, direttore generale dell'Istituto di ricerca  e cura a carattere scientifico del San Matteo, ci conforta: esami e prelievi procedono in tutta sicurezza nei nove dipartimenti di Medicina trasfusionale della Lombardia che contano in tutto una trentina di centri trasfusionali.

Per la sola Pavia sono stati esaminati circa 500 pazienti ex Covid, di questi 350 sono risultati idonei a donare il plasma.  "Queste sacche di plasma - ci spiega Nicora - sono trattate secondo le regole previste per la sicurezza, vengono quindi stoccate e sono pronte all'uso nell'eventualità di una seconda ondata".

Il direttore della  Irccs precisa che il plasma iperimmune non è un farmaco e può essere usato solo all'interno di un protocollo sperimentale. Questo verrà reso noto la prossima settimana con  l'obiettivo di uniformarne l'uso.

Il plasma che non fosse idoneo allo stoccaggio (pronto per un uso immediato) non va perso e  viene  trasformato dall'industria farmaceutica in farmaco. Il problema è che il farmaco sarà pronto non prima di 6/7 mesi.  Parliamo quindi di un'altra fase.

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