Come e perché si diventa soldati dello Stato Islamico (i cui servizi di sicurezza sono ancora vivi e vegeti)

Come e perché si diventa soldati dello Stato Islamico (i cui servizi di sicurezza sono ancora vivi e vegeti)
Diritti d'autore L'opera in copertina del libro si chiama Demonstration dell'artista siriano Tamman Azzam
Di Lillo Montalto Monella
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Abbiamo intervistato Gabriele Del Grande, giornalista e scrittore che l'anno scorso è stato arrestato in Turchia mentre lavorava ad un'inchiesta narrativa. Nel libro appena uscito, Dawla, racconta la storia del Califfato dal punto di vista dei carnefici, ovvero di tre disertori

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Per cercare di capirci qualcosa in più su una Siria distrutta, in ginocchio, bombardata da dentro e da fuori, teatro di scontro di eserciti, milizie, mercenari e soldati del jihad, dove al-Qaʿida e al-Nusra si alleano e si uccidono, dove ha regnato e forse regna ancora il Califfato nero, un giornalista italiano ha scelto di raccontare il punto di vista più difficile e più scomodo di tutti: quello dei carnefici.

Per arrivare a incontrare tre disertori e un prigioniero politico dello Stato Islamico, Dawla, questo giornalista è stato arrestato in Turchia, dove ha trascorso due settimane in un carcere senza sapere di cosa era accusato, iniziando uno sciopero della fame. Ha effettuato 66 interviste e registrato 200 ore di conversazione, tutte in arabo, con ex ufficiali dei servizi segreti e dell’esercito, ex prigionieri politici, contrabbandieri, attivisti, arabi, curdi, sciiti, cristiani e alawiti, giornalisti siriani e iracheni, sfollati di guerra, gente comune. Ha verificato ogni fatto incrociando i fili di ciascuna storia.

Per conoscere gli assassini e "cercare una risposta a quell'antica domanda sulla banalità del male", questo giornalista si è sporcato le mani. Si chiama Gabriele Del Grande e ha scritto probabilmente la più completa inchiesta narrativa sullo Stato Islamico mai apparsa in Italia, finanziata da un crowdfunding capace di raccogliere quasi 50mila euro.

Del Grande, già ideatore del premiato film Io sto con la sposa (2014) e fondatore nel 2006 dell’osservatorio sulle vittime delle migrazioni, Fortress Europe, dal 16 aprile è in libreria con Dawla- La storia dello Stato islamico raccontata dai suoi disertori (Mondadori). L'obiettivo iniziale del suo immenso e puntuale lavoro di ricerca era quello di scrivere "un grande progetto di giornalismo narrativo che intrecci l'epica della gente comune alla storia di questi vent'anni di guerre e terrorismo".

Il suo romanzo-inchiesta va ben oltre e ci aiuta a capire come è possibile che un giovane che sogna la democrazia e scende in piazza a protestare contro al-Assad si ritrovi, un giorno, a torturare e sgozzare kuffar, "infedeli", sulla pubblica piazza, sotto le insegne nere dello Stato Islamico.

La risposta non la si trova in superficie ma colpisce come una frustata nei sotterranei delle prigioni segrete siriane, dove avvengono torture e violazioni dei diritti inenarrabili e per non impazzire si allevano ragni oppure si impara a memoria il Corano insieme a ex combattenti di al-Qaʿida di ritorno dal jihad.

"Col senno di poi posso dire che quelle due settimane dietro le sbarre, in Turchia, hanno aiutato la mia ricerca", scrive nell'introduzione Del Grande, che abbiamo intervistato. 

Perché è "facile giudicare da fuori", come gli disse un partigiano siriano ad Aleppo.

Un'altra cosa che profetizzò quel partigiano di Aleppo, da cui hai preso il titolo per il crowdfunding, è che lui "morirà invano" nella guerra civile siriana, mentre suo figlio lo tradirà, venendo "a seminare morte in tutta Europa". Quel combattente, già allora, ci aveva preso molto più di tanti esperti di geopolitica?

Il partigiano si sentiva completamente abbandonato nella lotta armata contro Bashar al-Assad e percepiva che i più forti sul terreno, in grado di attirare nuove unità, combattenti e fondi, erano le brigate salafite-jihadiste, e che questo in futuro sarebbe stato un problema per tutti.

La narrazione mediatica vuole che lo Stato Islamico abbia perso definitivamente con la caduta della sua capitale, Raqqa. Un po' come davamo per morta anche al-Qaʿida, in realtà sempre presente sul territorio.

Lo Stato islamico non è stato sconfitto ma si è solamente ritirato dalle sue roccaforti. Continua ad esistere, i suoi combattenti si sono ritirati nelle zone del deserto. Ogni giorno ci sono notizie di attentati e autobombe. E' in una fase in cui si sta riorganizzando e situazioni di caos e di guerra sempre favorevoli per queste organizzazioni per saltare fuori.

Si tratta di un'organizzazione che in questi anni ha accumulato tanto capitale e tante armi, tuttavia rimangono moltissimi responsabili del potere reale, quello legato agli apparati di sicurezza.

Come funzionano i servizi segreti di Daesh, il vero nucleo di potere?

Sono organizzati in tre livelli:

  • La Sicurezza interna si occupa dell'anti-spionaggio, identificare infiltrati nell'organizzazione da parte di servizi segreti esteri, o di repressione del dissenso, non solo dal punto di vista religioso ma anche politico. All'interno del salafismo jihadista ci sono infatti varie anime: chi criticava la gestione di Abū Bakr al-Baghdadi faceva una brutta fine;

  • La Sicurezza esterna, come le nostre agenzie di intelligence, raccoglie informazioni sul nemico, anche all'estero;

  • La Sicurezza segreta è composta da agenti insospettabili, spesso europei o che viaggiano con passaporti europei tra il Golfo, la Turchia e l'Europa, con obiettivo di pianificare gli attacchi effettuati da ragazzi candidati al martirio. Arruolati magari direttamente a Parigi o in Belgio, senza che nemmeno conoscano tutta la catena di comando. Meri esecutori che, terminando l'operazione con la loro morte, non lasciano poi testimoni.

Nel libro scrivi che l'Islam politico ha un carattere rivoluzionario, soprattutto per quei ragazzi dimenticati in Siria e nei Paesi limitrofi. Come è possibile che un ragazzo che un giorno protesta pacificamente contro al-Assad qualche tempo dopo si ritrovi a fare il tagliagole per Dawla, lo Stato Islamico?

C'è una situazione di oppressione, ingiustizia, che grida vendetta. Il protagonista del libro è un ragazzo che parte dalle manifestazioni non violente contro il regime di Bashar al-Assad, viene arrestato, perde uno dei suoi migliori amici in carcere sotto le torture e, una volta fuori, decide che l'unico mezzo possibile per avere dignità, giustizia e libertà sia la lotta armata.

Inizialmente si arruola con le brigate dell'Esercito Libero, messe in piedi rapidamente dal fronte nemico a al-Assad (sauditi, qatarini, turchi, Francia, UK e USA); poi di fronte alla corruzione di queste brigate, trova un ideale di purezza, una sorta di utopia, nell'ideologia islamista dello Stato islamico.

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Questo il problema: fin tanto che in questi Paesi rimarrà una situazione di oppressione e ingiustizia e non ci sarà progetto di lotta altrettanto forte che si in grado di offrire ai giovani un'utopia alternativa, queste idee continueranno a esercitare fascino su generazione oppressa. Anche se domani finisce la guerra, ci sono mezzo milione di morti che gridano vendetta, per quel mezzo milioni di morti ci sono i parenti: sono come delle braci che rimangono sotto la cenere, calde, pronte a incendiarsi di nuovo.

Il carcere è la cartina tornasole dello stato di salute di un Paese. Ne hai fatto esperienza in Turchia e occupa una parte decisiva nella narrazione. Com'è oggi la situazione in Siria e in Turchia?

In Turchia ho avuto un trattamento "speciale", non ne ho una visione completa, ho visto solo due centri di detenzione, nel secondo dei quali sono stato messo in isolamento. Ma l'unica notizia certa è che ci sono centinaia di attivisti, giornalisti e avvocati in carcere per le loro idee. Tra loro anche Taner Kılıç (rilasciato a gennaio, n.d.R.), presidente di Amnesty International in Turchia, l'avvocato che avevo provato a contattare perché mi seguisse. Anche lui accusato di terrorismo, con accuse costruite sul niente.

In Siria la situazione è devastante, da decenni, con un uso sistematico della tortura per indurre i sospetti a confessare accuse con le quali, magari, non hanno nulla a che vedere. Nel libro è interessante vedere come le tecniche di tortura tra carceri siriane e quelle di Stato Islamico siano praticamente identiche: gli ex prigionieri diventano torturatori dei loro vecchi carcerieri usando le stesse metodologie.

Vari rapporti stimano che circa 13mila persone siano morte impiccate o torturate nel solo carcere [di massima sicurezza] di Sednaya.

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Nel libro scendi in dettagli inediti su come funziona la macchina del Daesh con la massima precisione. L'estremo livello di attenzione investe anche la lingua usata e le traduzioni dall'arabo. Parli per esempio dello stipendio medio di un soldato del Daesh (50 dollari al mese, con bonus per figlio di altri 35 dollari) o di come avvengano le transazioni finanziarie interne, tramite post-it inviati via WhatsApp tra i vari cambiavalute. Cosa ti ha colpito di più della macchina organizzativa dell'Isis?

La stampa racconta solitamente l'aspetto più truce e barbaro della violenza: le esecuzioni in piazza, per esempio. Quello che stupisce, guardandolo da dentro, è la capacità organizzativa, addirittura prima che annunciassero il ritorno del Califfato.

Per esempio, durante la rivolta della prigione di Sednaya nel 2008, in cui erano detenuti all'epoca mille affiliati di al-Qaʿida in Iraq, il penitenziario è stato amministrato con tanto di commissioni, responsabili per la salute, per la sicurezza, infiltrati, spionaggio. Alle spalle c'è un'organizzazione con anni di esperienza - almeno 15, dall'inizio della guerra in Iraq - sia militare che securitaria. Si impara dai modelli già presenti sul territorio, come quelli dei servizi segreti di Saddam Hussein.

Gabriele Del Grande, a sinistra, al Festival di Venezia nel 2014 per il documentario "Io Sto con la Sposa"
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