Foreign fighters di ritorno: cosa fare con i combattenti dell'Isis che tornano in Europa?

Foreign fighters di ritorno: cosa fare con i combattenti dell'Isis che tornano in Europa?
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Di Rachael KennedyLillo Montalto Monella
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In Italia il fenomeno è limitato - secondo gli ultimi dati ufficiali sono 135 i foreign fighters monitorati dalle autorità italiane - ma il paese resta indietro per quanto riguarda le politiche di deradicalizzazione

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Con le forze democratiche siriane (SDF) sostenute dagli Stati Uniti che stringono d'assedio l'ultima fazzoletto di terra controllato dal cosiddetto Stato Islamico - un'area di un chilometro quadrato nel governatorato siriano di Deir Az Zour - gli analisti sono già concentrati su quello che succederà dopo.

Molti dei combattenti dell'Isis provenienti dalla Siria sono fuggiti o sono stati catturati dall'SDF, ma restano interrogativi sul futuro dei foreign fighters del gruppo.

Secondo la Commissione Europea più di 42mila combattenti stranieri si sono uniti a organizzazioni terroristiche tra il 2011 e il 2016. Si ritierne che circa 5mila di loro provengano dall'Europa.

Secondo gli Stati Uniti negli ultimi anni circa 850 persone sono state catturate dall'SDF, il che ha indotto Washington a chiedere ai Paesi di rimpatriare e processare i propri cittadini.

Ma come ha risposto finora l'Europa alla prospettiva del ritorno dei suoi cittadini dal campo di battaglia?

I paesi europei stanno rimpatriando i loro cittadini?

Inizialmente i governi europei si sono rifiutati di rimpatriare i loro cittadini, ma alcuni hanno iniziato a riconsiderare la loro posizione in seguito alle pressioni degli Stati Uniti.

La Macedonia del Nord è stata il primo paese europeo a muoversi in questo senso, rimpatriando e processando sette combattenti nell'agosto 2018.

A gennaio la Francia ha dichiarato che stava considerando il rimpatrio di 130 uomini e donne, ma al momento non sembra che alle parole siano seguiti i fatti.

La Germania, che ha molti foreign fighters, prende tempo e sta seguendo da vicino il caso francese.

"Il governo federale - ha fatto sapere in una nota dello scorso novembre il ministero degli Esteri tedesco - sta esaminando tutte le opzioni per un possibile rimpatrio dei cittadini tedeschi".

Secondo alcuni esperti la riluttanza in Europa deriverebbe dalla preoccupazione che gran parte delle prove contro i foreign fighters potrebbero non reggere in tribunale.

Parlando specificamente dei casi nel Regno Unito, Shiraz Maher, direttore del Centro Internazionale per lo Studio della Radicalizzazione (ICSR), ha scritto che "per varie ragioni legali, molte di quelle che sono chiamate 'prove sul campo di battaglia' non sarebbero ammissibili in tribunale, sia per la loro consistenza che per il modo in cui sono state ottenute. Nei tribunali britannici, per esempio, non sono ammesse le intercettazioni".

"Il risultato è che alcuni combattenti britannici rimpatriati potrebbero semplicemente essere rilasciati una volta tornati in patria. Chiaramente, questa è una situazione che nessuno vuole. Un'altra opzione è che potrebbero essere condannati per crimini minori, ma questo pone un altro tipo di problemi".

L'opinione di Maher è ampiamente condivisa. "È difficile dimostrare in tribunale che hanno commesso dei crimini", ha detto a Euronews Maarten van de Donk, membro del Radicalisation Awareness Network della Commissione Europea (RAN).

Aldilà degli aspetti procedurali, restano comunque alte le probabilità che un foreign fighter venga perseguito al ritorno in patria.

Giovedì scorso il ministro della Sicurezza britannico Ben Wallace ha detto ai media britannici che "chiunque vada all'estero per combattere o sostenere organizzazioni come l'Isis deve aspettarsi di essere perseguito".

Il governo britannico è arrivato a togliere la cittadinanza ad alcuni membri britannici dell'Isis.

Questo mese il ministero dell'Interno tedesco ha reso noto che sono già tornati in patria un terzo dei circa milla cittadini tedeschi che a partire dal 2013 si sono uniti all'Isis in Iraq e Siria. Molti di loro sono stati perseguiti o inseriti in programmi di riabilitazione.

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E chi non è andato all'estero per combattere?

Su diversi media europei sono comparse interviste a persone - soprattutto donne - che sono andate all'estero per unirsi all'Isis e ora vogliono tornare a casa, sostenendo di non aver preso parte ai combattimenti.

Una di loro, la 19enne Shamima Begum, in una recente intervista al Times ha confessato che, pur non rimpiangendo di aver lasciato il Regno Unito, ora vorrebbe tornare a casa per portare a termine la gravidanza.

Casi del genere ci sono stati anche in Francia e in Belgio, mentre in Germania l'AFP ha intervistato un calzolaio tedesco che ha detto di non essere stato coinvolto nei combattimenti.

Secondo van de Donk si tratta di casi abbastanza frequenti. "Dipingere le donne come innocenti e gli uomini come colpevoli rientra in una visione manichea della realtà - ha detto van de Donk a Euronews -. Non tutte le donne sono innocenti, alcune lavoravano per la polizia della Sharia e sappiamo anche che molte di loro lavoravano nel reclutamento".

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"Resta però molto difficile da dimostrare - ha aggiunto van De Donk -. Si tratta di decidere se vogliamo dare loro una seconda possibilità".

Su Twitter Maher ha sottolineato che anche gli stranieri che non hanno combattuto hanno comunque contribuito ad alimentare la macchina propagandistica dell'Isis.

"Si tratta di individui altamente radicalizzati - ha scritto Maher - che hanno dato un sostegno intangibile all'Isis attraverso la semplice presenza sul territorio; la loro presenza ha rappresentato una sorta di vittoria morale e propagandistica per il gruppo".

"In molti sensi - ha aggiunto - la presenza di stranieri non combattenti rappresenta una forma distinta di propaganda. Hanno avuto un ruolo nel normalizzare l'anormale (unirsi all'Isis)".

Come è gestito il rimpatrio dei bambini?

Per l'Europa la priorità resta il rimpatrio dei bambini.

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Nello scorso ottobre la Francia aveva annunciato di essere al lavoro su un piano di rimpatrio per i bambini dei foreign fighters, ma la questione al momento non sembra essere in cima alle priorità.

In Belgio le modalità di rimpatrio si basano sull'età. I bambini di età inferiore ai 10 anni hanno diritto a ritornare immediatamente in Belgio, mentre quelli di età compresa tra i 10 e i 18 anni vengono considerati caso per caso.

Tuttavia il governo belga ha annunciato di volere presentare ricorso contro una sentenza del tribunale che lo scorso dicembre ha ordinato il rimpatrio di 6 bambini e delle loro madri.

La Spagna, stando a El Pais, avrebbe agevolato il rimpatrio delle famiglie dei foreign figheters dell'Isis, arrivando a pagare le spese delle guide che le hanno scortate dalle zone di conflitto alla Turchia.

Anche la Russia ha annunciato di avere rimpatriato i figli di alcuni foreign fighters. Molti paesi restano dubbiosi. Il loro timore, secondo Maher, è che, un volta avviato rimpatrio dei bambini, potrebbero vedersi costretti a rimpatriare anche i non combattenti e, infine, i foreign fighters.

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"Improvvisamente, se potessimo rimpatriare i bambini, allora seguirebbero pressioni per rimpatriare i migranti non combattenti e, infine, gli stessi combattenti", ha scritto su Twitter.

C'è un piano di reintegro?

Nonostante l'Eurpa continui a fare orecchie da mercante sulla questione, secondo van de Donk sono molti i paesi che hanno già adottato le misure per gestire il rimpatrio e la reintegrazione dei foreign fighters, in particolare i paesi più interessati dal fenomeno come Francia, Regno Unito, Belgio e Germania.

Il Radicalisation Awareness Network, un'organizzazione composta da gruppi di lavoro con professionisti di tutta Europa, ha scritto un manuale completo che si concentra in parte sul processo di reinserimento dei foreign fighters nella società europea.

Particolarmente sensibile, secondo van de Donk, è la questione del reinserimento dei bambini e delle difficoltà che potrebbero dovere affrontare. "Il loro processo di reinserimento nella vita normale va monitorato costantemente per notare subito eventuali ripercussioni".

Qual è la situazione in Italia?

Stando alle ultime cifre ufficali, risalenti allo scorso 15 agosto, sono 135 i foreign fighters monitorati dalle autorità italiane. Un numero esiguo rispetto a quello di altri paesi (in Francia sono quasi 2mila).

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Secondo Francesco Marone, ricercatore dell'ISPI e docente in relazioni internazionali all'Università di Pavia, l'Italia è molto indietro sul fronte della deradicalizzazione dei foreign fighters ma tra paesi i più avanzati su quello della repressione.

"Nel 2017 - ha detto Marone a Euronews - era stata presentata una proposta di legge, poi venuta meno, sulla deradicalizzazione. Aveva lo scopo di fissare delle linee guide che avrebbero dovute essere implementate con una serie di decreti. Prevedeva misure soft basate sul contributo di società civile, scuole e comunità islamicia. L'iniziativa si è arenata a livello nazionale, ma so che a livello locale ci sono comuni ed enti locali che stanno facendo qualcosa, soprattutto sul piano della prevenzione. A differenza di altri paesi come la Francia o Danimarca, dove c'è un’architettura molto centralizzata o strategie nazionali, in Italia siamo fermi".

Diverso il discorso per quanto riguarda la repressione. "In italia - spiega Marone - un caso come quello di Shamima nel Regno Unito non sarebbe potuto succedere. Dopo i fatti di Charlie Hebdo è stato emanato un decreto, poi convertito in legge, che ha messo fuori legge i foreign fighters. Sul lato repressivo l'Italia ha tenuto un atteggiamento piuttosto aggressivo".

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