La telefonata di Becciu al Papa

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L'ex cardinal Becciu, travolto da una serie di disavventure giudiziarie, è adesso imputato per associazione a delinquere mentre una telefonata con Papa Francesco dell'estate del 2021 rivela scenari inquietanti

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Una telefonata col Papa registrata senza che il Papa ne fosse al corrente: ecco il nuovo capitolo giudiziario che investe l'ex cardinale Angelo Becciu. Cinque minuti in cui il papa (ancora convalescente dopo il ricovero al Gemelli nel luglio 2021) ascolta la richiesta del cardinale che domanda a Fancesco di confermare con una nuova dichiarazione che fosse stato direttamente lui ad autorizzarlo a fare i versamenti alla manager Cecilia Marogna, per pagare il riscatto di una suora colombiana rapita in Mali. L'audio è stato ritrovato dalla Guardia di Finanza  in un telefono cellulare di una parente di Becciu, in relazione all'indagine della procura di Sassari sulla gestione della cooperativa Spes, a capo della quale c'era il fratello di Becciu. Fra i documenti giudiziari appaiono quasi mille bolle di trasporto falsificate relative alla consegna di migliaia di chili di pane a centinaia di parrochie, le bolle giustificavano le somme erogate dalla diocesi alla cooperativa.

"Vuole la mia morte"

'Non pensavo arrivasse a questo punto: vuole la mia morte", pare abbia scritto Becciu ad una parente, due giorni prima che sua nipote registrasse la telefonata con Bergoglio. I messaggi, che erano in una chat con amici e familiari, sono trascritti in un'informativa della Guardia di Finanza per il processo sull'utilizzo dei fondi della Santa Sede. La nuova documentazione ha fatto scattare una nuova inchiesta contro Becciu per associazione a delinquere. Intanto è giallo per la scomparsa di Daniel Anrig, per cinque anni comandante delle Guardie Svizzere, poi congedato dal Papa nel 2014 per 'comportamenti troppo bruschi' nei confronti dei sottoposti. L'uomo non si è presentato al lavoro a Zermatt, non risponde al telefono e non dà sue notizie.

Mons.Perlasca, io né complice, né connivente, né favoreggiatore

(ANSA) - CITTÀ DEL VATICANO, 25 NOV - "Il card. Becciu mi ha fatto fare le cose per le quali è imputato in questo processo. Io non sono né complice, né connivente, né favoreggiatore. La mia posizione è stata archiviata: io sono qui perché altri mi hanno portato qui". Ha avuto anche questo momento di sfogo monsignor Alberto Perlasca, ex responsabile dell'Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, oggi nella seconda giornata del suo interrogatorio in aula come testimone d'accusa nel processo sugli investimenti della Santa Sede. Tra molti "non ricordo" riguardo a chi gli riferì determinate circostanze finite anche nel suo "memoriale" del 31agosto 2020 o sulla successione di eventi, incertezze su date e firma degli atti, dopo la prima giornata di ieri Perlasca e quella di oggi in cui ha risposto alle difese di Becciu, Fabrizio Tirabassi ed Enrico Crasso, concluderà il controesame da parte delle difese nella prossima udienza del 30 novembre.

Ha tra l'altro riferito di una serie delle pressioni da parte del card. Becciu perché se ne andasse da Casa Santa Marta (cosa avvenuta dopo che è stato sollevato dall'incarico nella Segnatura apostolica), come avvenne anche per mons. Mauro Carlino, già segretario del cardinale. E ricordando di essere stato anche consigliere del Fondo vaticano di assistenza sanitaria (Fas), del Bambino Gesù, del Fondo pensioni vaticano e dell'Istituto di Musica sacra, oltre che, per sei o sette mesi, promotore di giustizia aggiunto al Supremo Tribunale della Segnatura apostolica, ha sottolineato che "non essendo più dipendente vaticano, mi è stato tolto tutto, anche la cittadinanza. Mi sono state tolte le tessere dell'Annona, per la benzina, per gli acquisti, quella della Fas. Sono tre anni che non ricevo lo stipendio, non ho la pensione né italiana né vaticana, non ho neanche l'assistenza sanitaria. Però non ho chiesto nulla a nessuno". A proposito del palazzo di Sloane Avenue a Londra e della preparazione dei contratti per l'acquisto, da cui, una volta firmati, nel dicembre 2018 emerse che il broker Gianluigi Torzi aveva mantenuto mille azioni con diritto di voto che gli garantivano il controllo dell'immobile (nonostante la Segreteria di Stato avesse 30 mila azioni) ha lamentato: "Non eravamo pronti, non eravamo psicologicamente pronti per quella operazione. Soprattutto con quella velocità. E' stata come una frana. Bisognava guardare le cose con calma. Non credevo a chi mi ripeteva 'va tutto bene'". E sulla studio legale Mishcon de Reya di Londra che fu reclutato per risolvere la situazione con Torzi: "magari l'avessero chiamato prima di firmare quell'atto. Non saremmo qui". Perlasca ha ribadito che "se io ho firmato quell'atto si vede che ero certissimo che mi avrebbero dato la procura per firmare. Io non avevo alcun potere di firma, dovevo essere autorizzato dal sostituto per gli Affari generali, allora già mons. Edgar Pena Parra, e la procura era per acquisire l'intera e immediata proprietà del palazzo". "Quell'autorizzazione devo averla avuta per forza - ha detto ancora Perlasca non ricordando però i dettagli -, altrimenti non avrei potuto firmare. Almeno una telefonata al sostituto gliel'avrò fatta, se non altro per correttezza". Comunque l'ex capo dell'Ufficio amministrativo ha riferito anche di essere stato poi "progressivamente emarginato dal sostituto". "Quando Torzi, per chiudere la questione delle mille 'golden share', chiese di avere altri 15 milioni di euro, volevo che lo si denunciasse e che si percorresse la via giudiziale.

Invece è prevalsa la via della trattativa e a me è stato detto di non occuparmi più della questione. E così ho fatto". Sempre Perlasca ha rievocato comunque che, negli incontri con Torzi e i suoi collaboratori a Casa Santa Marta a cavallo del Natale 2018, lo stesso papa Francesco spinse perché si trattasse. "Altre fonti spiegano anche - ha aggiunto - che il Papa disse che a Torzi andava data 'la giusta mercede'".

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