Su i tassi d'interesse, giù Wall Street: la Federal Reserve procede a un nuovo rialzo

Jerome Powell, presidente della Federal Reserve
Jerome Powell, presidente della Federal Reserve Diritti d'autore Patrick Semansky/AP
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Di Diego Malcangi
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I tassi di riferimento negli USA crescono di un ulteriore 0,75% e si posizionano tra il 3,75% e il 4%. Ma la Federal Reserve prima parla di prossimo rallentamento dei rialzi, poi spaventa i mercati ipotizzando di superare il livello previsto per il 2023. E l'Europa faticosamente insegue

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(versione video di Gianluca Martucci) 

Rialzo dei tassi e immediato calo a Wall Street: dopo una giornata di sostanziale attesa per l'annuncio della Federal Reserve, la decisione di un rialzo di 75 punti base dei tassi d'interesse - accompagnata dalle dichiarazioni di Jerome Powell sulle prospettive a breve - ha portato a un calo dell'1,55% per il Dow Jones in chiusura di giornata, a un -2,50% per l'S&P 500 e soprattutto a una forte pressione sui titoli tecnologici: - 3,36% per l'indice Nasdaq. 

Il presidente della Fed in realtà ha rispettato le attese dei mercati e il rialzo dello 0,75% non ha creato uno shock immediato: al contrario, a Wall Street gli indici passavano in verde quando Powell parlava di un possibile prossimo rallentamento del ritmo dei ralzi.

Powell spiegava che il rallentamento trova la sua logica nel fatto che la politica dei rialzi ha bisogno di tempo per concretizzarsi sui mercati, e quindi se ne sarebbero visti gli effetti più in là. 

Poi però ha aggiunto: "restano dei passi da fare, e i dati mostrano che potremmo dover arrivare a livelli più alti rispetto al 4,6% che avevamo previsto in settembre". 

Da quel momento Wall Street girava al ribasso e crollavano in particolare i titoli tecnologici, già fragilizzati dalle tensioni sulle forniture di materie prime per i microchip, dal rallentamento recente del mercato automobilistico - e quindi dei computer di bordo -, dalla recessione incombente in Europa (che comporta una compressione degli acquisti), e ora anche dal timore di una possibile recessione anche negli Stati Uniti. 

I tassi USA, per effetto dell'ultima decisione, salgono al 3,75%-4%: un livello che non vedevano dal 2008 (è però un livello che era costantemente raggiunto e anche ampiamente superato prima degli anni 2000, tanto che nel 1980 si arrivò anche al 20%).  Si parla per dicembre di un +0,50%, poi primo rialzo del 2023 a +0,25%. Questo porterebbe il tasso massimo al 4,75%, ma a spaventare è il fatto che Powell non abbia posto nuovi limiti. 

Con un'inflazione principalmente da domanda, le decisioni di Powell hanno fin qui trovato un ampio consenso. Ma le sue parole sul livello finale che potrebbe andare al di là delle previsioni hanno iniziato a far temere che finisca per fare troppo: se da una parte il rialzo dei tassi - e quindi il "costo del denaro" - ha l'effetto di scoraggiare la domanda e portare quindi con un quasi-automatismo al calo dei prezzi, questo rimedio anti-inflattivo trova i suoi limiti nella capacità dei produttori di assorbire i continui rialzi, e anche nell'effetto indiretto sul dollaro che prende quota sulle altre valute, riducendo potenzialmente l'export. 

E in effetti, contestualmente al crollo di Wall Street, l'Euro perdeva un altro 0,45% sul dollaro, scendendo a 0,9830: non un record, ma quasi. E ricordiamo che appena diciotto mesi fa la moneta europea era a 1,22 sul dollaro. 

Sarebbe una buona notizia per le aziende europee, che potrebbero esportare a prezzi competitivi, se queste non fossero però afflitte da costi produttivi abnormi, dovuti al rincaro energetico che colpisce con evidenza molto più l'Europa che gli Stati Uniti.    

Tanto che nel vecchio continente l'inflazione è da ritenersi più da offerta che da domanda, e quindi più difficile da contrastare con la stessa cura adottata negli Stati Uniti.   

Ma se la Federal Reserve procede con logici rialzi dei tassi diventa difficile per la BCE non fare altrettanto: anche per evitare un'eccessiva svalutazione dell'Euro, che andrebbe ad aggravare gli effetti dell'inflazione. Se la strada è stretta per la Federal Reserve, lo è molto di più per la BCE. Che in effetti ha proceduto pochi giorni fa a un ulteriore rialzo dello 0,75% e ha fatto sapere che procederà ancora con rialzi, nonostante i primi segnali recessivi - l'obiettivo è riportare l'inflazione al 2%, dal livello attuale che nell'UE supera il 10% -.  

Anche negli USA l'inflazione è ancora largamente superiore all'8% - quella depurata dai costi energetici è al 6,6% - ma per il 2023 si prevede un riavvicinamento all'obiettivo del 2%.   È vero che la gran parte delle analisi fatte lo scorso anno prevedeva un tasso simile anche per il 2022, ma è vero anche che erano state fatte ipotesi di scenario peggiore, fino ai livelli effettivamente raggiunti, proprio sulla base dell'eccesso di domanda in buona parte dovuto alla ripartenza post-pandemica e alle contestuali strozzature per la produzione - in particolare per i costi dei trasporti e la tempistica delle forniture - elementi che se non risolti avrebbero comportato una lievitazione dei prezzi.  Così è stato, con l'aggiunta di una guerra nella mai abbastanza lontana e anche mai abbastanza vicina Europa.

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