M5S, alle radici del risultato peggiore di sempre

Giuseppe Conte
Giuseppe Conte Diritti d'autore Olivier Matthys/Copyright 2019 The Associated Press. All rights reserved
Di Samuele Damilano
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Il Movimento 5 Stelle ha preso in media il 2,2% nei Comuni con più di 15.000 abitanti. Un partito da riformare, che ha ancora non ha fatto i conti con se stesso

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La peggiore sconfitta di sempre. Il 2,2% del Movimento 5 Stelle ottenuto alle ultime amministrative, nei comuni con più di 15.000 abitanti, rappresenta il punto più basso della creatura di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Una caduta libera, quella del Movimento, dal 32%,7 delle elezioni politiche del 2018.

Mancanza di presenza sul territorio, divisioni interne tanto strutturali da non fare nemmeno più la fatica di tentare di nasconderle. Il garante Beppe Grillo sempre più distante, invischiato in guai giudiziari e spesso contrasto Giuseppe Conte. Davide Casaleggio che ha abbandonato la barca. Un tribunale di Napoli che ritiene  illegittimo lo statuto con il quale Conte è stato eletto alla carica di presidente.

Una parabola che riprende la traiettoria più classica dei partiti populisti una volta arrivati al potere, una volta seduti dentro quel Parlamento da aprire come una scatoletta di tonno, sul quale al contrario i parlamentari hanno deciso di sedersi comodi, tapparelle abbassate, senza tanto preoccuparsi di quello che accade all’esterno.

Il peggior risultato di sempre

Giuseppe Conte lo ammette. Colui che, forte della sua popolarità da presidente del Consiglio dei Dpcm notturni, doveva far risalire il Movimento nei sondaggi, non nasconde la sconfitta nella sede a via Campo Marzio: “Va detto che per la natura dell’elettorato del Movimento è normale fare fatica alle Amministrative. Ma il risultato non ci soddisfa e non ci può soddisfare”.

Che le amministrative non sarebbero andato bene i pentastellati se lo aspettavano. Ma i risultati hanno le fattezze di una disfatta: a Genova, la città di Beppe Grillo, hanno preso il 4,5%, a Palermo, dove hanno storicamente riscosso consenso, il 7,3%, a Catanzaro il 3,8 %. A Parma e a Verona hanno deciso di non presentarsi. 

In diversi dei maggiori capoluoghi (Genova, l'Aquila, Catanzaro) hanno presentato un candidato insieme al Partito democratico, che con il suo 15,7% può permettersi di disegnarsi come “carro trainante” - leggi come il Partito che detta le regole - alle prossime elezioni politiche.

Conte continua a rifiutare la definizione di subordinato e il segretario del Pd Enrico Letta sa che senza Conte le possibilità di vittoria contro la coalizione di centrodestra sono nulle. L'alleanza rosso-gialla però non è stata premiata dagli elettori: le due forze sono in un cul de sac, si ritrovano in una convivenza forzata necessaria e allo stesso tempo insipida per gli elettori. Come finirà? I malumori suscitati dall'alleanza, d'altronde sempre malcelati nel Pd, agitano i democrats e in casa 5 Stelle, si sa, non va meglio.

“Bisogna fare ammenda e completare il lavoro sui territori”, dice infatti Conte, che proprio oggi annuncerà la “fase due” del suo percorso di rifondazione, ovvero la votazione di quei referenti locali necessari a dare una struttura fisica che il Movimento non ha mai realmente avuto. 

A chi poi lo stuzzica su un’eventuale uscita dal governo, che gli permetterebbe di attirare una fetta di voti di protesta oggi di proprietà di Giorgia Meloni, risponde che “non è per tornaconto elettorale che stacchiamo la spina”. E ci tiene a specificare che “alcune resistenze interne, anche durante le elezioni per il Quirinale, hano rallentato la nostra azione”.

La spaccatura interna

Da chi provengano queste resistenze interne non c’è nemmeno bisogno di specificarlo: Luigi Di Maio, ormai habitué del Consiglio dei ministri fin dal governo gialloverde, è a capo di un’altra corrente all’interno del partito. 

Questa spaccatura si è resa manifesta nel corso delle elezioni per il presidente della Repubblica, quando Di Maio ha “sabotato” il tentativo di portare Elisabetta Belloni al Quirinale, che sembrava in grado di vincere ma che poi, dopo l’opposizione dei democratici Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, e dello stesso Di Maio, è stato fatto cadere.

«Pensavano di fregarmi», è il sunto della critica del ministro degli Esteri, cui la sortita non è mai andata giù. Ancora irritato per essere stato escluso, almeno stando alle sue dichiarazioni, dalla trattativa, dopo la riconferma di Sergio Mattarella ha denunciato alle telecamere «il fallimento di certe leadership che hanno creato divisioni». Anche in questo caso non c’era bisogno di fare nomi. 

Lo scontro con Di Maio è solo l'ultimo di una lunga serie di "frizioni", "contrasti", "divisioni", che hanno caraterizzato il Movimento una volta salito al potere nel governo gialloverde, alleato con un partito, la Lega, con cui avevano giurato di non poter condividere nemmeno un piatto di pasta. 

Da quel momento, si è aperta una lacerazione, forse insanabile, di sicuro ancora non sanata, tra chi è voluto rimanare fedele al Movimento delle origini, in primis Alessandro Di Battista, e chi invece ha deciso di adeguarsi alla vita istituzionale. Rinnegando così in parte gli ideali di protesta delle origini. 

C'è una frase, pronunciata da Grillo, esplicativa di questo mutamento ancora incompiuto: "Non siamo più marziani". L'ha proncunciata all'indomani della decisione di appoggiare il governo tecnico di Mario Draghi, prologo dell'abbandono di una figura storica del Movimento come Davide Casaleggio, erede della piattaforma Rousseau: già negli ultimi due anni si era progressivamente incrinato. 

Da supporto e strumento di partecipazione attiva degli iscritti, nonché emblema della democrazia diretta, la creatura di Casaleggio era diventata corpo alieno all’attività parlamentare e governativa. In molti, tra deputati e senatori, dissentivano dall’obbligo di versare una quota mensile per finanziare una piattaforma che percepivano estranea e retaggio di un’idea di politica che non si sentivano in dovere di rappresentare. 

Anche il garante, Beppe Grillo, sta assumendo un ruolo sempre più defilato all'interno del Movimento, partecipando sempre meno al dibattito pubblico, ma facendo comunque valere la sua autorità, in contrasto con il capo politico, Giuseppe Conte, da lui stesso voluto. 

A gennaio è stato inoltre accusato di traffico di influenze illecite, e di aver fatto pressioni sui rappresentanti politici pentastellati per favorire l’amico e proprietario della società Moby, Vincenzo Onorato. Non tanto tempo prima, la difesa pubblica, e plateale, del figlio Ciro accusato di stupro gli era costata un danno di immagine notevole. 

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Una buona notizia per il Movimento potrebbe arrivare dall'esito del ricorso contro un tribunale di Napoli che aveva ritenuto illegittimo lo statuto del Movimento. Ma questo non basterebbe di certo a risolvere i problemi.

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