Consacrazione, caduta e resurrezione di Aung San Suu Kyi: la Fenice birmana dalle sette vite

Aung San Suu Kyi in uno scatto del 2012
Aung San Suu Kyi in uno scatto del 2012 Diritti d'autore CHRISTOPHE ARCHAMBAULT/AFP or licensors
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Di Euronews
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Costretta ai domiciliari, elevata a simbolo delle lotte contro l'oppressione e poi caduta in disgrazia. Vita, morte e resurrezione di Aung San Suu Kyi: Fenice che dopo il Nobel e il voltafaccia dell'opinione pubblica internazionale, continua a dar filo da torcere alla giunta militare del suo Paese

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Le lotte politiche contro l'oppressione in Myanmar, i lunghi anni di carcere e poi ancora il Nobel per la pace, il voltafaccia dell'opinione pubblica internazionale per le sue tiepide prese di posizione sulla persecuzione dei Rohingya e il travolgente successo alle elezioni dello scorso anno. Costretta ai domiciliari, elevata a simbolo delle lotte contro l'oppressione e poi caduta in disgrazia, Aung San Suu Kyi è da ormai più di 30 anni una spina del fianco della giunta militare birmana.

Uno straordinario esempio della forza dei deboli
Il Comitato del Nobel per la Pace

Nel nome del padre. L'impegno politico nei geni di famiglia

Nel sangue i geni dell'eroe dell'indipendenza Aung San, assassinato nel 1947, Aung San Suu Kyi rileva l'impegno politico del padre poco più di 40 anni dopo. Nel mirino non più l'impero britannico, ma il governo rivoluzionario del generale Ne Win, al potere dal 1962. La protesta che infiamma la piazza nel 1988 trova in lei una madrina pronta a sposarne le rivendicazioni. Di ritorno in patria dopo lunghi anni all'estero, alla repressione della contestazione nel sangue replica invocando il ritorno della democrazia e partecipando alla nascita del primo vero partito d'opposizione: la Lega Nazionale della Democrazia.

Il Nobel visto dai domiciliari. Un tunnel lungo 15 anni

Pochi mesi appena e alle elezioni dell'anno successivo, la neonata formazione ottiene già una vittoria schiacciante. La giunta contesta però i risultati e si aggrappa al potere. Tutti eventi a cui Aung San Suu Kyi assisterà dagli arresti domiciliari: l'inizio di una traversata nel deserto lunga una quindicina d'anni e che nel 1991 le impedirà di ritirare il Premio Nobel per la pace. Il Comitato norvegese la celebra allora come "straordinario esempio della forza dei deboli". Da tempo malato di cancro, il marito che non vedeva da anni muore nel frattempo nel Regno Unito ma lei, per timore di non poter rientrare in Myanmar, resta in patria.

DANIEL SANNUM LAUTEN/AFP
Il discorso per il Nobel, tenuto a Olso nel 2012. Il premio era stato conferito ad Aung San Suu Kyi nel 1991 quando era agli arresti domiciliariDANIEL SANNUM LAUTEN/AFP

Massacrati dalle bande armate. L'attentato scampato del 2003

In una delle parentesi dei domiciliari a cui è ormai costretta da 14 anni, nel 2003 la leader dell'opposizione birmana è vittima con il suo staff di un'imboscata nel nord del Paese: un vero e proprio assalto da parte di bande armate, che secondo le cronache dell'epoca fece centinaia di vittime tra i sostenitori venuti ad applaudire la Nobel per la pace. Lei scampa all'attacco, ma finisce dietro le sbarre con l'accusa di aver fomentato la folla e provocato l'incidente.

Il partito preferisce Aung San Suu Kyi: il boicottaggio delle elezioni del 2010

Nel 2010 Aung San Suu Kyi è ormai prossima all'uscita dal tunnel dei domiciliari. Alle prime elezioni indette da oltre 20 anni, il suo partito oppone però la linea del boicottaggio. Prezzo da pagare per presentarsi, in base a una legge da poco approvata, sarebbe stato l'obbligo di dissociarsi dalla sua leader. Nell'immediato la strategia dei militari sembra pagare: le urne premiano quello che viene considerato il suo braccio politico, ma già due anni dopo le elezioni suppletive regalano alla Lega Nazionale per la Democrazia ben 40 dei 45 seggi in palio.

"L'inizio di una nuova era". Dall'opposizione alla maggioranza

Nel suo primo discorso dopo i risultati, lei parla di "trionfo del popolo" e auspica "l'inizio di una nuova era". Forte di un crescente sostegno popolare e internazionale, Aung San Suu non si accontenta però dei banchi dell'opposizione. La consacrazione arriva con i risultati delle elezioni politiche del 2015: la costituzione le vieta di rilevare la Presidenza, ma la maggioranza assoluta ottenuta dal suo partito alle prime consultazioni libere in 25 anni, le regala un ruolo di primo piano.

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Una manifestazione in sostegno di Aung San Suu Kyi, in vista delle elezioni del 2020STR/AFP or licensors

L'ambiguità sui Rohingya e la difesa della repressione

Abilissima quando era all'opposizione, la leader della Lega Nazionale per la Democrazia non sembra però esserlo altrettanto nella gestione dei difficili equilibri a cui la costringe l'esercizio del potere. A richiamare l'attenzione internazionale, soprattutto le sue posizioni ambigue sulla persecuzione della minoranza musulmana dei Rohingya. Violenze e repressione da parte dell'esercito che nel 2017 alimentano un esodo di massa nel vicino Bangladesh vengono da lei avallate davanti alla Corte di Giustizia Internazionale, chiamata a valutare la sussitenza o meno degli estremi di "genocidio".

"Silenzio" e "diniego". La comunità internazionale le volta le spalle

L'opinione pubblica internazionale volta allora le spalle ad Aung San Suu Kyi. Amnesty International le revoca il premio "Ambasciatore della coscienza" che le aveva conferito nel 2009, il Parlamento Europeo il prestigioso Premio Sakharov con cui l'aveva celebrata come "grande simbolo di libertà e democrazia". A ricorrere nelle motivazioni, in entrambi i casi, sono i termini "silenzio" e "diniego" che vengono associati alla sua reazione alla crisi della minoranza musulmana, perseguitata in Myanmar.

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Tiepida e contestata, la posizione di Aung San Suu Kyi sulla repressione militare della minoranza musulmana dei RohingyaRAKESH BAKSHI/AFP or licensors

Troppo grande il successo alle urne. I militari la destituiscono e attaccano in tribunale

Impermeabile alle contestazioni internazionali - e secondo alcuni forte anche del lasciapassare ottenuto difendendo i militari agli occhi del mondo - Aung San Suu Kyi incassa poi nel novembre dello scorso anno un nuovo successo elettorale: numeri ancora superiori a quelli del 2015, che non tardano però ad allarmare la giunta. Adducendo l'argomento di "imponenti frodi", non rilevate però dagli osservatori internazionali, a inizio febbraio i militari la destituiscono, riprendono il potere e la inviano in carcere. Contro di lei vengono aperti una quindicina di procedimenti, per accuse, spazianti dalle frodi elettorali alla violazione delle misure anti-Covid, che nel complesso potrebbero costarle oltre 100 anni di carcere.

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