Migranti, cos'è cambiato sulla rotta balcanica da 50 anni a questa parte?

Il luogo dove riposano i quattro migranti morti nel 1973 a Sant’Antonio in Bosco
Il luogo dove riposano i quattro migranti morti nel 1973 a Sant’Antonio in Bosco Diritti d'autore Simone Modugno
Di Simone Modugno
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La rotta balcanica passa per Triste, noi siamo andati a Sant’Antonio in Bosco, per capire cosa è cambiato negli ultimi 50 anni. Abbiamo ricostruito un fatto di cronaca del 1973

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Nel solo 2020 l’Italia ha riportato in Slovenia 1240 migranti trovati al confine. Migranti che, a loro volta, sono stati respinti a catena fino alla Bosnia ed Erzegovina dalle autorità slovene e croate. Questa pratica, giustificata secondo il Viminale da un Accordo bilaterale Italia-Slovenia del 1996, è stata dichiarata illegittima il 18 gennaio scorso da un Tribunale di Roma.

“In questo momento le riammissioni non vengono più effettuate e siamo in attesa di indicazioni da parte degli organi centrali”, spiega il Prefetto di Trieste, Valerio Valenti.

Lungo il confine orientale d'Italia - terra di frontiera segnata dagli esodi, e luogo di passaggio lungo la rotta balcanica - in questi anni è cambiata non solo la gestione degli arrivi da parte delle autorità, ma anche la sensibilità verso gli stessi migranti da parte della popolazione locale.

Tanto che il ripetersi di un episodio accaduto quasi 50 anni fa, nel 1973, sarebbe oggi impensabile.

Le bare portate a spalla dal paesino commosso

Siamo stati a Sant’Antonio in Bosco, paese poco distante dal confine e popolato principalmente dalla minoranza slovena. Qui, nella notte tra il 12 e il 13 ottobre del '73, vengono ritrovati i corpi senza vita di quattro migranti, uccisi dalla fame e dal freddo. Il Comune decide di organizzare a proprie spese i funerali, a cui partecipa quasi tutta la popolazione. Vengono sepolti a pochi passi dagli eroi partigiani.

Come raccontano le cronache del tempo, i giovani - provenienti dal Mali - muoiono di freddo e di fame una volta attraversata la frontiera tra Italia e Jugoslavia. Un confine pattugliato capillarmente da soldati pronti a sparare.

A quel tempo, a cercare fortuna nel nostro Paese erano soprattutto persone in fuga dalla repubblica socialista. Gente che quindi condivideva una cultura e una lingua molto simili a quelle degli abitanti locali.

L’arrivo di quattro persone di pelle scura è una novità sconvolgente per il paesino, e la loro morte genera una tale commozione che il Comune decide di organizzare a proprie spese i funerali.

Una grande folla vi prende parte e, come da usanza locale, le bare vengono trasportate ognuna da quattro giovani, affiancati da alcune ragazze vestite di bianco che tengono candele e mazzi di fiori.  Presente anche il fratello di uno dei defunti, che prega secondo il rito islamico.

Il ricordo è ancora vivido nella mente di coloro che al tempo avevano più o meno l’età dei quattro migranti e che oggi abitano ancora a Sant’Antonio in Bosco, come Jasna Petaros.

“Fare un confronto tra la qualità di vita che avevamo noi qua e – racconta - pensare a quelle persone che si erano messe in un'avventura incredibile, rischiando la vita, per me era una cosa sconvolgente. Ero addirittura andata a cercare sulla cartina geografica per capire il percorso che avevano fatto”.

I loro corpi furono seppelliti nel cimitero del paese, dove si trova anche il monumento a 43 caduti della Resistenza partigiana contro il nazifascismo. Ogni anno un comitato locale commemora l’anniversario della loro morte e sulle loro tombe non mancano mai fiori freschi.

Simone Modugno
Monumento ai caduti della Resistenza nel cimitero di Sant'Antonio in Bosco, a pochi passi dal luogo dove riposano i quattro migrantiSimone Modugno

Il 1973 fu anche l’anno della grande crisi energetica, quell'evento limito' gli ingressi di quei paesi che erano la meta principale per i migranti (Germania, Francia e Inghilterra) .

Le persone provenienti dall’Africa e dall’Asia, spesso appartenenti alla fascia più istruita e ricca della popolazione, si trovarono quindi a dover cambiare destinazione e si diressero verso altri stati europei, tra cui l’Italia.

Erano però flussi migratori esigui, quasi invisibili.

“Quelli che venivano qui lo facevano di notte, non li incontravi. Era una cosa sporadica. Adesso il numero è aumentato, e di conseguenza si notano”, riferisce Albina Auer, un’altra abitante del paese.

Dalla solidarietà socialista alla paura

“Oggi la gente ha un po' di paura, anzi, ha fastidio, è questa la parola giusta”, dice Emil Pettirosso, abitante del luogo.

Un fastidio generato, a loro dire, dalla vista dei vestiti e degli zaini abbandonati dai migranti nei boschi una volta superato il confine, assieme alla presenza costante della polizia e dei militari che pattugliano l’area.

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I veri motivi, però, andrebbero ricercati altrove, indica Roberta Altin, professoressa di Antropologia e coordinatrice del Centro Interdipartimentale su Migrazioni e Cooperazione Internazionale allo Sviluppo Sostenibile dell’Università degli Studi di Trieste.

Secondo Altin, se negli anni Settanta la minoranza slovena era incline alla tolleranza perché lei stessa vittima di discriminazioni, oggi chi popola quell’area di confine sente di dover difendere dagli stranieri i privilegi acquisiti nel tempo.

“La differenza incolmabile che viene percepita dal punto di vista culturale – spiega -, in realtà è la paura di concorrenza sul mercato del lavoro in crisi. Mi sembra che la minoranza slovena sia diventata molto simile a tutti gli italiani, mentre prima aveva un'impostazione di retaggio socialista e quindi di solidarietà”.

Simone Modugno
Sant'Antonio in Bosco visto tra gli alberi del cimiteroSimone Modugno

La storia non si ripete

A quasi 50 anni dalla morte dei quattro giovani africani, durante un altro freddo inverno, nel novembre scorso un altro gruppo di migranti ha tentato di attraversare il confine tra Italia e Slovenia.

Sono ancora in vita, ma raccontano ad Euronews di aver subito un respingimento oltre frontiera da parte delle autorità italiane. Uno degli oltre 1200 respingimenti effettuati l'anno scorso, come riporta il dossier “I migranti senza diritti nel cuore d’Europa” della rete RiVolti ai Balcani.

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I respingimenti (pushback, in inglese) sono contrari al diritto italiano, europeo e internazionale quando coinvolgono richiedenti asilo e chiunque faccia domanda di protezione. Ogni Stato UE è obbligato a considerare la domanda, processarla e fornire una risposta in tempi ragionevoli. Nel frattempo, il migrante ha il diritto di soggiornare sul territorio nazionale.

In quel gruppo di migranti ricacciati in Slovenia nel novembre 2020 c'era anche Aqil, giovane nato nel ’96 in Pakistan e fuggito dalle persecuzioni dei Talebani.

“Dalla Slovenia siamo tornati nuovamente in Italia", racconta a Euronews. "Il 22 dicembre siamo riusciti ad attraversare il confine. Siamo stati tutta la notte in stazione e il giorno dopo abbiamo fatto richiesta d’asilo”.

Anche Juma, 26 anni, è partito dal Pakistan. Ha viaggiato per circa sei anni, venendo respinto più volte da vari Paesi lungo la rotta balcanica.

Quando ha varcato il confine tra Italia e Slovenia non mangiava da cinque giorni. Ormai pensava di avercela fatta e di essersi lasciato il peggio alle spalle, invece è stato caricato su un furgoncino dalla polizia e riportato indietro.

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In quel momento ricorda di aver pensato: “Con tutte le difficoltà che abbiamo attraversato, le violenze che abbiamo ricevuto e le notti per la strada trascorse, perché ci rimandano indietro anche qui?”

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