Mediocrità o qualità diffusa? Ecco come leggere i ranking internazionali delle università

Una studentessa in una biblioteca dell'Università Milano-Bicocca nel marzo scorso
Una studentessa in una biblioteca dell'Università Milano-Bicocca nel marzo scorso Diritti d'autore PIERO CRUCIATTI/AFP or licensors
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Di Lillo Montalto Monella
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Lo studio confuta la tesi, spesso riportata dai media, secondo cui il sistema universitario italiano presenta risultati mediocri perché riesce ad avere davvero pochi atenei, se non nessuno, ai primissimi posti delle classifiche.

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L'università italiana non è poi cosi mediocre come sembrerebbe guardando ai ranking internazionali dei migliori atenei del mondo. Anzi, pur nelle difficoltà e nell'endemica mancanza di fondi, il nostro sistema accademico riesce ad essere più resiliente - rispetto ad altri Paesi - di fronte a shock mondiali come la pandemia. Una resilienza però destinata alla condanna, se l'Italia non saprà trovare le risorse per investire in mezzogiorno e ricerca.

È quanto emerge dalla ricerca L'Italia e la sua reputazione: l'università, realizzata da italiadecide, in collaborazione con Intesa Sanpaolo e presentata con il supporto della Luiss Guido Carli.

Lo studio confuta la tesi, spesso riportata dai media, secondo cui il sistema universitario italiano presenta risultati mediocri perché riesce ad avere davvero pochi atenei, se non nessuno, ai primissimi posti delle classifiche.

Non siamo presenti tra le prime 100 università al mondo, vero, ma queste corrispondono a meno dell’0,5% di tutti gli istituti universitari (circa 20mila). Il sistema universitario italiano, "a qualità diffusa sul territorio", piazza oltre il 40% dei suoi atenei nei primi mille a livello globale: più di Francia, Cina e USA che ne posizionano meno del 10%.

Normalizzando i dati sul totale di università presenti in ogni Paese, l’Italia supera tutti, incluso il Regno Unito, per numero di istituzioni universitarie nel migliore 5% dell’intero sistema universitario mondiale.

Sistema pubblico italiano più in grado di reggere agli shock

Nel più ampio contesto internazionale, il carattere pubblico del sistema italiano si è mostrato più resiliente. "Questo principalmente perché non ha dovuto affrontare, insieme alla crisi pandemica, la conseguente crisi economica, causata dalla carenza di entrate per le minori iscrizioni e le ridotte rette", si legge.

"Le iniziative prese dal sistema universitario italiano hanno consentito di evitare, almeno per l’anno accademico in corso, il ripetersi del forte calo delle immatricolazioni seguito alla crisi finanziaria del 2008-2009". 

"La scelta dei principali ranking internazionali rilasciati nel 2020 di prendere a metro di paragone sistemi come quelli del Regno Unito, degli USA e dell’Australia, è stata dettata dal carattere culturalmente dominante che le istituzioni di questi paesi si sono trovate ad occupare negli ultimi decenni. In questo senso, la loro maggiore fragilità nei confronti di shock esogeni che intaccano le entrate economiche suggerisce uno dei meriti di un sistema pubblico, senza per questo negare che in esso persistano anche criticità".

Dalla ricerca emerge come il sistema universitario italiano sembri mostrare "una elevatissima capacità di mitigare gli effetti di lunghi periodi di scarsità di risorse, di dinamiche, forse cicliche, di riduzione della reputazione, magari anche di disaffezione da parte del sistema Paese".

L'Università italiana, evidenzia l'analisi, ha sostanzialmente continuato nel 2020 a erogare lo stesso numero di ore di lezione, tenere gli stessi esami e produrre lo stesso numero di laureati del 2019.

Si registra, addirittura un incremento di oltre il 9% delle immatricolazioni per il totale degli studenti nelle università pubbliche e del 7,1% negli atenei privati (dal 15 novembre 2019 al 15 novembre 2020), a differenza di quanto accaduto nel 2009 quando la crisi economica fu pagata pesantemente anche in termini di mancate iscrizioni.

Il Sud registra l'incremento maggiore, superiore al 6% (+8.000 immatricolazioni). Segue il Nord con oltre 10.000 unità, numero maggiore in valori assoluti ma con una variazione percentuale del 5,5% e infine il centro con un incremento di 5000 immatricolazioni, quasi il 4% (dati al 15 novembre 2020 comparati con il 2019).

"Una resilienza intrinseca che poggia le basi sulle solide radici culturali e sociali del sistema universitario, sul lento avvicendamento e rinnovamento della classe dei docenti universitari, forse l’unica conseguenza positiva di quest’aspetto, sul prestigio che comunque mantengono molte università e ambienti universitari, sia in Italia che all’estero".

Tuttavia, si legge, questa resilienza alla lunga può logorarsi sotto i colpi di dinamiche di rinnovamento repentino degli scenari sociali e culturali, l’innovazione tecnologica e la rapida obsolescenza delle competenze acquisite all’università - in primis, sotto i colpi di dinamiche di globalizzazione e mobilità della ricerca e della formazione.

Insomma, la competizione di altri atenei all'estero non lascia scampo, alla lunga.

I talloni d'Achille: mezzogiorno e ricerca

Il Mezzogiorno contribuisce al risultato italiano nei ranking internazionali, si legge nel documento, con pochissime università, sia tra le prime 500 che tra le prime 1.000, mentre non ha università nelle prime 200, in entrambe le classifiche usate.

Ma il Sud non è l'unico tallone d'Achille. L’Italia, come è noto, destina alla ricerca una quota di risorse, rispetto alla spesa pubblica, decisamente inferiore rispetto alle principali controparte europee. E questo non permette di migliorare le modalità di reclutamento dei professori e il ricambio generazionale.

Quanto a risorse economiche stanziate, si legge nello studio, l'Italia si posiziona - questa volta sì - in una posizione di mediocrità, "ben lontano dai principali paesi con i quali intende competere culturalmente nello scenario internazionale". A dispetto di un altro ranking nel 2019, legato alla Wharton University of Pennsylvania, ha posizionato l’Italia al primo posto per influenza culturale.

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Come indica Will_Ita, l'Italia ha i migliori ricercatori in Europa, ma lavorano all'estero.

Il Consiglio Europeo della Ricerca (ERC) sottolinea che i ricercatori italiani sono i primi beneficiari dei fondi europei - un dato che conferma la grande qualità del lavoro dei nostri ricercatori, da anni apprezzatissimi a livello internazionale. 

Tuttavia, la gran parte dei fondi di cui i ricercatori italiani sono assegnatari vengono utilizzati in università e istituti di ricerca di altri paesi dell'UE. "Le nostre università sono infatti nelle ultime posizioni fra quelle dove i fondi ERC vengono effettivamente spesi. In questa classifica risultiamo all'ultimo posto fra i grandi paesi europei", scrive la pubblicazione su Instagram.

"L'incrocio dei due dati ci offre una fotografia desolante di un paese che che da una parte forma e investe in persone che poi però non trovano occasioni all'altezza delle loro aspettative e che decidono quindi di andare all'estero a fare ricerca".

Ipotesi di intervento

La ricerca italiadecide, Intesa Sanpaolo e Luiss riporta alcune indicazioni per rafforzare la qualità delle università italiane e la loro percezione all’estero. 

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Politiche di reclutamento di docenti e studenti competitive, maggiore efficienza della macchina amministrativa per liberare risorse da destinare alla ricerca e alla didattica, implementazione della didattica a distanza nell’offerta formativa per rendere l’istruzione più inclusiva, internazionalizzazione, collaborazione con imprese private, anche al fine di far incontrare domanda e offerta di lavoro, e reti tra atenei.

Ecco alcune possibili aree di intervento:

  • Politiche di reclutamento del personale accademico adeguate alle necessità derivanti dalla competizione internazionale;

  • Diminuire drasticamente gli oneri amministrativi per il personale accademico;

  • Rafforzare la macchina amministrative degli atenei per supportare le nuove funzioni di costruzione della reputazione;

  • Internazionalizzare il recruitment degli studenti in maniera strategica mirando ad aree geografiche specifiche;

  • Integrare attori esterni (specialmente privati) nelle politiche di internazionalizzazione;

  • Incrementare gli investimenti per limitare le criticità sulle qualità delle infrastrutture, il rapporto studenti/docenti, l’età media dei docenti etc.

  • Sfruttare e integrare il ‘brand Italia’ nell’offerta didattica verso gli studenti stranieri.

  • Elaborare una politica di internazionalizzazione differenziata a seconda delle aree scientifiche in cui viene calata;

  • Prestare maggiore attenzione alle competenze emergenti richieste dal mercato del lavoro internazionale;

  • Fornire attenzione alle competenze emergenti richieste dal mercato del lavoro italiano e locale, soprattutto per le università che vivono in sinergia con il tessuto locale;

  • Potenziare gli uffici predisposti alla partecipazione a bandi e progetti di ricerca, a livello nazionale e internazionale;

  • Creare/aggregare network di atenei per promuovere l’internazionalizzazione.

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