A casa di Liliana Segre: l'emozione, tanta, di guardarla negli occhi

A casa di Liliana Segre: l'emozione, tanta, di guardarla negli occhi
Diritti d'autore AP Photo/Luca BrunoLuca Bruno
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Di Cecilia Cacciotto
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Dopo varie email e telefonate, Liliana Segre accetta di essere intervistata da euronews. Mi accoglie a casa sua. Immagino sia un incontro come tanti altri, invece no. Mi basta stringerle la mano per sentire le vibrazioni di una storia lontana. Mi scopro all'improvviso emozionata

**Per questa nuova puntata di Global Conversation, siamo andati a Milano a intervistare Liliana Segre che ci apre la porte di casa sua. A dirla tutta, a accoglierci sono gli agenti della scorta, discreti ma sempre presenti. (Per vedere l'intervista Tv clicca il video qui sopra).
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“Di cosa dobbiamo parlare?”

Liliana Segre mi accoglie così. È alta, ancora imponente, intransigente fin da subito. L’intervista si fa nel salotto blu, dove rilascia sempre le interviste e lei si siederà all’estremità destra del divano blu. Come sempre. Non ci sono i termini per un negoziato e non si negozia.

I cameramen comunque ci provano: l’ingresso forse andrebbe meglio. È l’ingresso degli appartamenti di una volta, le porte di molte stanze danno su quest’ambiente centrale che è molto spazioso. Ma Liliana Segre è irremovibile. Io cerco di stabilire subito un contatto, vorrei uscire dall'anonimato dell’ennesima intervistatrice chesperiamomifacciadomandeintelligenti.

La ringrazio per avere accettato la richiesta di euronews e per tutta risposta Liliana Segre mi risponde “Mi è parso non poter fare altrimenti”.

Sono stata così insistente, mi chiedo? Il suo commento mi disorienta. Noto che effettivamente ha il viso stanco e me ne voglio per aver forzato un po’ la mano. Le sto dietro da quasi un anno e il mio lavoro di pressing negli ultimi giorni è stato incessante.

Ci sediamo sul divano blu e a questo punto Liliana Segre mi domanda cosa le chiederò. “Per i 75 anni della liberazione di Auschwitz, euronews vorrebbe sapere cosa ha significato per lei tornare e raccontare l’orrore”.

“Perché mi fate tutti le stesse domande? Mi son venuta a noia io stessa nel sentirmi ripetere sempre le stesse cose”.

Io ho un impercettibile tremito, oddio qui si mette malissimo, mi dico. E come glielo spiego che capisco benissimo quello che vuole dire e che in fondo vorrei farle altre domande, cui forse neppure mi risponderebbe, ma che il mio pubblico, il pubblico di euronews, forse, non ha mai ascoltato una sua intervista e che quindi...

E poi, come racconta lei le cose non le racconta nessuno, la sua lucidità, la sua umanità e anche la sua durezza servono. Oggi più che mai. Evito però, mi rifugio in una spiegazione banale, sicuramente poco convincente, e lì mi vengono in aiuto i ragazzi della troupe. Stanno armeggiando con le luci e chiedono a un uomo della scorta dove sia l’interruttore. Liliana Segre mi ascolta ma sorveglia tutto il resto.

“Scusi, scusi – fa a uno dei cameramen – sta cercando l’interruttore? Chieda pure a me. Anche se gli uomini della scorta sanno quasi tutto di me, sono pur sempre io che abito in questa casa”. Un dettaglio? Sicuramente, ma che dice già tutto. Liliana Segre mi appare inaccessibile, in realtà non è così, sono io che ne subisco il fascino e mi succede con tutte le persone luminose che traspirano vita.

Liliana Segre è una di queste, è un portento, una forza. Capisco perché è sopravvissuta, lei ha più volte detto ‘volevo vivere, dentro il campo tutti volevamo vivere’. E la mia personalissima idea è che di fronte a questa ragazzina di 13 anni - che Liliana sminuisce sempre “ero sciocca, ignorante, non parlavo le lingue” - i suoi stessi aguzzini inconsapevolmente abbiano in modo animalesco fiutato la vita, abbiano capito che era la vita. E l’hanno risparmiata.

Era troppo difficile allora trovare le parole per raccontare quello che avevamo visto e sofferto ed era quasi impossibile per gli altri capire come eravamo cambiati una volta tornati da Auschwitz. Le parole sono come pietre, sono difficili da trovare, da recepire. A me personalmente sono servite e mi servono
Liliana Segre

Mentre la troupe prepara il set, cerchiamo entrambe di stabilire un contatto, lei mi invita a prendere una caramella o a bere qualcosa, la ringrazio “sa prima di qualsiasi intervista non riesco a mandar giù niente”. “La sua attenzione – mi risponde – è volta a creare l’incontro e non lo scontro con la persona che ha di fronte”.

“Penso sia così”, le dico e cerco di superare il mio limite di non guardare negli occhi una persona mentre le parlo. Ancora una volta cerco un contatto fisico, per me è primordiale, ho bisogno di sfiorarla perché ho l’impressione di toccare la storia che lei incarna, di sentire lo strazio delle sue membra che è lo strazio dei deportati che hanno marciato a piedi nudi nella Marcia della Morte, ma anche la gioia di chi alla fine ha ritrovato la libertà. Liliana è ancora tutto questo.

Di fronte a tanto il mio sguardo si abbassa e incontra i piedi con cui Liliana si è sostenuta salendo e scendendo dai palcoscenici di tutte le vite che ha vissuto. Sono piedi di chi è in grado di sostenersi da solo. In questa vita come in altre.

"Sono qui di fronte a lei a parlare di qualcosa che io ho letto sui libri e lei ha vissuto. Mi sembra di parlare di una vita fa”.

“È proprio così, d’altra parte, tutti noi viviamo più vite”.

“Lei però in tutte le vite che ha vissuto, è stata e continua a essere una bella donna”. Mi guarda, mi sorride e per tutta risposta mi dice: “Non sono mai stata bella, figuriamoci se lo sono adesso”.

Ancora una volta mi spiazza, ma il suo animo schivo mi conquista. Definitivamente.

Il ciak di Stefano ci proietta sul set dell’intervista. Io la guardo negli occhi e inizio. Anzi cerco di iniziare, la prima domanda, ripetuta mentalmente mille e mille volte, gioca a nascondino. Non me la ricordo più. Ho il taccuino in cui le annoto. Non riesco però neppure a leggere.

Il volto di Liliana Segre è sereno, mi pare meno stanco di quando mi ha accolto.

“Sono sardine quelle che ha sulla maglietta?”. “Sì sono sardine, ma non quelle sardine, altre sardine”. “Meglio che abbottoni la giacca, allora”.

Sorrido tra il divertito e l’imbarazzato. Adesso possiamo iniziare.

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