Come è cambiata la lingua italiana nell'ultimo decennio?

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Come è cambiata la lingua italiana nell'ultimo decennio?

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Cosa resterà di questi anni '10? Nelle ultime settimane giornali e siti web hanno pubblicato le loro classifiche su praticamente qualsiasi argomento (gli eventi più importanti, i politici più influenti, i dieci migliori film ecc...), un'occasione per fare il punto sul decennio che sta per concludersi sfruttando una fonte inesauribile di spunti, dibattiti e polemiche.

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Tra le cose che resteranno c'è, ovviamente, la lingua italiana. Una lingua che però, come tutte le cose vive, è cambiata rispetto al 2010. Se dieci anni sono un periodo limitato per avere dei cambiamenti sostanziali a livello strutturale, sono però più che sufficienti affinché nuove parole diventino di uso comune e vengano inserite nei dizionari.

Scorrendo la lista dei neologismi inseriti nei vari dizionari negli anni '10 spiccano i numerosi anglicismi (hasghtag, follower, crowdfunding, binge watching, influencer ecc...), la cui diffusione è legata soprattutto alle innovazioni tecnologiche del decennio.

La diffusione massiccia di smartphone e tablet, l'affermazione dei social network e di app come WhatsApp hanno cambiato profondamente il nostro modo di comunicare (come dimostra anche questa frase in cui compaiono tre neologismi da tempo nei dizionari).

L'uso di frasi corte e periodi senza subordinate, l'utilizzo di acronimi e parole troncate mal si adattano alla lingua italiana. "La lingua italiana ha uno stile ipotattico, con tante subordinate - spiega Paolo D'Achille, professore ordinario di Linguistica italiana presso l'Università Roma Tre - e si presta poco a questo tipo di comunicazione".

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Questi fattori hanno contribuito alla diffusione di parole estrapolate tali e quali dal vocabolario inglese, assieme al loro uso sempre più frequente in vari campi, dalla politica alla finanza. "L'italiano - dice D'Achille - ha perso col tempo la sua centralità a scapito dell'inglese". Così negli ultimi anni termini come no vax, stepchild adoption, jobs act, fake news, flat tax e brexit sono diventati di uso comune, al punto da motivare il loro inserimento nei dizionari.

"Del resto questo - sottolinea D'Achille - è l'unico criterio affinché una parola venga considerata parte di una lingua: deve essere usata comunemente da tante persone". In Italia non c'è un iter ufficiale: sono le redazioni dei vari dizionari a decidere ogni anno quali neologismi includere.

Altri Paesi, come la Spagna, sono più attenti a prevenire la diffusione di anglicismi nel loro vocabolario, grazie al lavoro delle accademie. "Quando compare un nuovo termine inglese - spiega D'Achille - forniscono tempestivamente un corrispettivo nella propria lunga. In questo modo la gente sa che termine utilizzare".

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