A bordo dell'Aita Mari, dove l'inferno libico accompagna i migranti anche dopo il salvataggio

A bordo dell'Aita Mari, dove l'inferno libico accompagna i migranti anche dopo il salvataggio

Di Javi Julio
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L'esperienza dei centri libici rimane impressa nei migranti, segnati da cicatrici e traumi psicologici.

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Quando sulla poppa della nave si diffonde la notizia che è stato finalmente assegnato un porto dove sbarcare, Pozzallo, le 79 persone salvate dal mare dalla nave Aita Mari, della ong spagnola Salvamento Marítimo Humanitario, si abbandonano a canti di gioia: "Boza! Boza!" gridano per dire "Vittoria!". I migranti e l'equipaggio si uniscono in un abbraccio.

Intorno alla mezzanotte di domenica 24 novembre, l'Italia ha autorizzato l'ong spagnola a sbarcare nella Sicilia meridionale. Nonostante il via libera delle autorità, il maltempo non dà tregua e rallenta lo sbarco. La nave si trova a poche miglia di distanza dal porto, ma per potere toccare la costa occorre aspettare ancora due giorni.

"Dovremo attendere che la tempesta passi per rendere lo sbarco sicuro: ora stiamo trasportando persone molto stanche", ha spiegato il capitano Marco Martinez.

Dal venerdì scorso il forte vento e le onde alte fino a tre metri hanno reso difficile la navigazione. Come se la traversata e il rischio di morire annegati non avessero provato già abbastanza i migranti, molte persone soccorse sono state costrette a dormire sul ponte, esposte al freddo e alla tempesta delle ultime ore, mettendo alla prova la resistenza di tutta la nave nella notte di domenica.

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Il migrante Abdul salvato da Aita MariJavi Julio

Mentre si scatenava la tempesta Iñigo Gutierrez, vicepresidente della ong, denunciava: "Tutto questo è ingiusto. Queste persone avrebbero dovuto essere trasferite immediatamente in un porto sicuro. Parliamo di un diritto umano e universale".

Scappando dall'inferno libico: "Abbiamo dovuto mangiare dentifricio per sopravvivere"

Il lunedì mattina, con il mare più tranquillo e la sicurezza dello sbarco la situazione sul ponte inizia a distendersi. I migranti sulla nave attendono lo sbarco e guardano all'Europa come a una promessa, alle loro spalle lasciano quello che definiscono "l'inferno libico".

"Nel mio paese l'unica vita possibile è quella del soldato. Non possiamo studiare, non siamo liberi", spiega Abdul, che all'età di 15 anni è fuggito dall'Eritrea per evitare il servizio militare e la guerra. Dal suo paese è fuggito in Etiopia, poi in Sudan e infine in Libia, dove è caduto nelle mani di una delle milizie che lottano per il controllo del paese. Dopo essersi tolto maglione e camicia, inizia a mostrare le cicatrici che gli segnano le braccia mentre ripete: "La Libia non è un buon posto".

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"Abbiamo dovuto mangiare dentifricio per sopravvivere", racconta sulla poppa della nave Ismail, di origine somala. Per tre volte ha tentato di attraversare il Mediterraneo: ogni volta è stato intercettato dalla Guardia costiera libica e riportato nei centri di detenzione.

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Ismail, a bordo della nave Aita MariJavi Julio

Le testimonianze delle 78 persone salvate dalla Aita Mari confermano, ancora una volta, le denunce delle organizzazioni per i diritti umani che lavorano in Libia e che parlano di centri di tortura e di estorsione. "Lì vieni arrestato solo perché sei nero", racconta Ismail. Gli altri migranti, di origine subsahariana, raccontano tutti la stessa storia.

"Almeno in mare si può nuotare. Se cadi durante il viaggio in furgone, sei morto", afferma invece Hamir, un altro migrante a bordo della nave che è riuscito a lasciarsi alle spalle l'inferno libico ma non riesce a togliersi dalla testa il viaggio compiuto in furgone per raggiungere la Libia. Attraversando il deserto ha visto decine di corpi di migranti che non ce l'hanno fatta rimasti sulla strada. "A un certo punto l'autista ha abbandonato la carovana - spiega Hamir - e noi siamo stati costretti a incamminarci nel deserto: non vedevamo nient'altro che la sabbia" conclude.

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Quando è arrivato a Tripoli, Hamir è stato arrestato insieme al fratello dalla polizia e rinchiuso in un centro di detenzione. "Un giorno, durante una partita di calcio, sono riuscito a fuggire, ma ho lasciato mio fratello dentro" si dispera il ragazzo.

Abdul, Hamir, sono una delle centinaia di storie in cui si imbattono le ong che navigano il Mediterraneo cercando di soccorrere i migranti: lo sbarco della Aita Mari non è l'unico dei giorni scorsi; grazie anche alle operazioni di soccorso di Ocean Viking e Open Arms, 366 persone sono state salvate nella zona sar del Mediterraneo centrale nella settimana scorsa.

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HamirJavi Julio
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