UNHCR in Libia, parte 2 - I migranti nei centri di detenzione: "Perché UNHCR vuole tenerci qui?"

UNHCR in Libia, parte 2 - I migranti nei centri di detenzione: "Perché UNHCR vuole tenerci qui?"
Diritti d'autore Migranti a Qasr Bin Gashir
Diritti d'autore Migranti a Qasr Bin Gashir
Di Lillo Montalto MonellaSara Creta
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Seconda parte dell'inchiesta esclusiva di Euronews sull'agenzia delle Nazioni Unite in Libia. In questa puntata si parla di membri dello staff "cugini" dei capi delle milizie e di sparatorie nei centri di detenzione che non vengono denunciate.

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In questa seconda parte della nostra inchiesta sulle operazioni UNHCR in Libia, pubblichiamo le testimonianze dei migranti che sono stati registrati o sperano di essere registrati per il ricollocamento. Attendono di sapere quale sarà il loro destino nei centri di detenzione per non perdere la priorità➡️ PARTE 1

Nonostante un crescente impegno economico della UE nel supporto e addestramento delle unità di guardia costiera libica e un memorandum of understanding italiano con il GNA e l'organismo libico responsabile per la gestione dei centri di detenzione, ancora non sono stati fatti passi avanti per garantire il pieno rispetto dei diritti umani e condizioni di vita dignitose per i migranti nel paese.

La situazione in Libia, anzi, va deteriorandosi. Molti migranti hanno segnalato a Euronews casi di abusi dopo essere entrati - talvolta non spontaneamente - in centri di detenzione. Per tutti la speranza è quella di essere registrati dall'UNHCR. Le testimonianze raccolte parlano di casi di tortura, stupro ed estorsione da parte delle milizie locali; quando i migranti tentano la traversata del Mediterraneo, vengono spesso intercettati dalle guardie costiere libiche e automaticamente reincarcerati nei centri di detenzione.

"È diventata un'infinita e terribile spirale da cui non c'è via d'uscita", le parole di Julien Raickman, responsabile dell'operazione libica di MSF-Francia, intervistato dal Times.

La missione principale dell'UNHCR in Libia è quella di registrare i migranti e trovare loro una soluzione per portarli via dal paese, considerato non sicuro. Tuttavia, come aggiunge Raickman, "le procedure di ricollocamento sono completamente bloccate".

Come abbiamo visto nella ➡️ PRIMA PARTE, l'agenzia Onu è stata accusata di essere una "foglia di fico" della politica di esternalizzazione dei confini della UE; detta in altri termini, i critici sostengono che l'azione di UNHCR in Libia sia importante per quei pochi ricollocamenti che riesce ad effettuare (circa 2mila ogni anno), ma sostanzialmente inefficace in tanti altri ambiti.

Un rifugiato a Ghargaresh. Foto: Sara Creta

L'Alto commissariato, guidato dall'italiano Filippo Grandi, ha ripetutamente e urgentemente chiesto all'Europa di evacuare tutti i rifugiati e smantellare i centri, definiti veri e propri "campi di concentramento"; tuttavia, attribuisce le inefficienze dell'azione di UNHCR in Libia alla difficoltà di accesso dello staff Onu alle strutture. Una presa di posizione che non trova d'accordo le milizie che gestiscono i centri con le quali abbiamo avuto modo di parlare. In questa fase, non è ancora chiaro quale sia il livello di accesso effettivo di UNHCR ad ogni singolo centro e l'agenzia, come fa notare la ricercatrice Melissa Phillips su Twitter, l'agenzia non pubblica statistiche dettagliate, utili ad uno scrutinio più serrato, sulla frequenza delle visite nei centri e sulle registrazioni effettuate rispetto al totale dei migranti presenti.

Charlie Yaxley, portavoce di UNHCR, indica genericamente a Euronews come "il lavoro che siamo in grado di svolgere nei centri di detenzione è limitato, in quanto sono gestiti dalle autorità libiche. Il nostro accesso è limitato e ci limitiamo a effettuare la registrazione, la valutazione delle domande di protezione, le visite mediche e la fornitura di generi di soccorso di base".

Dall'altra parte, sono le stesse autorità libiche a lamentarsi per una supposta inefficienza del lavoro di UNHCR, pur senza fornire all'agenzia uno status legale chiaro per le operazioni nel paese.

"Alcuni etiopi e somali di questo centro [Tarik Sika, controllato da una milizia filogovernativa] sono qui da due anni. Dopo uno o due anni, UNHCR informa i migranti che il loro ricollocamento è stato rifiutato", sono le parole del capitano Abdelnaser Ezam, vice presidente della sezione di Tripoli del Ministero dell'Interno, Governo di Accordo Nazionale (GNA). "Recentemente, un somalo ha ricevuto questa comunicazione. Si è suicidato dandosi fuoco ed è morto dopo 2 giorni di terapia intensiva in ospedale. Questo è il risultato della depressione che colpisce gli immigrati nei centri: credono che, una volta registrati da UNHCR e fatto il colloquio, verranno direttamente accettati e ricollocati".

Il migrante somalo si chiamava Abdulaziz, aveva 28 anni ed è spirato nell'ottobre 2018. Era entrato nel centro nove mesi prima.

Un filo rosso che si snoda attraverso quattro centri di detenzione

Per ricostruire cosa succede nei centri di detenzione, abbiamo raccolto le testimonianze di persone che sono o sono state detenute in quattro strutture diverse (qui trovate la mappa).

  • Qasr Bin Gashir
  • Zintan
  • Az-Zāwiyah
  • Abu Salim

Ci siamo imbattuti in un denunce di inefficienza e cattiva gestione che sembrano contribuire a perpetuare quello stesso sistema sotto lo scrutinio dei tribunali nazionali e internazionali. Ma andiamo con ordine.

In aprile c'è stata una sparatoria nel centro di Qasr bin Ghashir, alla periferia di Tripoli, vicino alla linea del fronte. Secondo MSF, ci sono state vittime e almeno 12 migranti feriti. UNHCR si è affrettata ad evacuare più di 300 persone ma, allo stesso tempo, ha emesso un comunicato stampa in cui c'è scritto che "sono stati segnalati colpi di pistola sparati in aria" e "non ci sono state ferite d'arma da fuoco" ➡️ VEDI PARTE 1. Una versione ribaltata dalle prove raccolte da MSF e Amnesty International. Prima di quell'episodio, come indica una fonte ad Euronews, i migranti erano rimasti senza cibo per due settimane; UNHCR aveva offerto loro di essere trasferiti a Zintan, che però è noto per essere uno dei peggiori lager della Libia, e i migranti di Qasr bin Ghashir avevano rifiutato questa opzione.

Immagine inviata a vari media, tra cui Euronews, da un rifugiato a Zintan

Nel centro di Zintan le condizioni sono disperate: nell'estate 2019, ad un certo punto, si sono contati 700 esseri umani l'uno sopra l'altro, tenuti a digiuno. Ventidue persone sono morte di tubercolosi e di stenti settembre 2018. In questa struttura sono stati segnalati anche 120 minori.

Il mandato dell'UNHCR non prevede la fornitura di cibo e acqua per richiedenti asilo e rifugiati, ma medici dell'agenzia hanno accesso al centro, come confermano a Euronews le autorità locali. La fornitura di cibo è gestita della Direzione libica per la lotta contro l'immigrazione illegale (DCIM), ma sono stati denunciati gravi ritardi nei pagamenti alle società di catering con conseguenti interruzioni del servizio.

L'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha espresso preoccupazione per le condizioni "disumane e degradanti" in cui questi rifugiati sono trattenuti, "così come per le continue segnalazioni di sparizioni e tratta di esseri umani".

Immagine inviata a vari media, tra cui Euronews, da un rifugiato a Zintan

Durante una delle tante proteste nell'hangar di Zintan, i migranti hanno esposto dei cartelli che dicevano: "Siamo vittime dell'UNHCR in Libia" e "Siamo abusati dalle organizzazioni per i diritti umani".

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Tutte queste foto sono circolate sui social media grazie all'operato di giornalisti come Sally Hayden, ma anche di Associated Press o di Ong come MSF, presente sul territorio. Non c'è da stupirsi che i migranti vedano UNHCR come responsabile delle loro degradanti condizioni di detenzione: spesso nei centri lettini e equipaggiamenti recano il logo dell'agenzia delle Nazioni Unite, quindi è lì che vola immediatamente il pensiero dei detenuti, spiega una delle nostre fonti. Un uomo rinchiuso a Zintan riferisce che:

UNHCR non ha alcun piano per aiutarci. Non abbiamo relazioni con loro da molto tempo

L'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati "ha intervistato solamente 39 di queste 650 persone che muoiono di fame..... a Zintan in giugno. Due giorni fa, a solamente 27 di loro sono state prese le impronte digitali per l'evacuazione", ha scritto su Twitter l'avvocato Giulia Tranchina, che da anni a Londra assiste richiedenti asilo e rifugiati provenienti dalla Libia..

Dopo aver detto no al trasferimento a Zintan, nelle ore successive alla sparatoria di Qasr bin Ghashir, i migranti sono stati portati da UNHCR nel centro Az-Zāwiyah. C'è anche chi è riuscito a sfuggire alla sparatoria: tra loro, un migrante e sua moglie incinta. Teneteli a mente, parleremo del loro destino loro tra poco.

Il centro di Az-Zāwiyah è gestita da una milizia, la brigata al-Nasr, sanzionata dall'Onu per la tratta di esseri umani (➡️ VEDI PARTE 1). Un migrante ha indicato a Euronews che il responsabile UNHCR che visita il centro, chiamato Waleed, è molto vicino al capo della prigione, noto come Osama:

Waleed cerca sempre di sostenere il capo della prigione, a volte lo loda e lo copre quando fa qualcosa di sbagliato. Per via della sua vicinanza ad Osama, molti migranti pensano che siano fratelli o parenti

Questa affermazione relativa ad un rapporto di prossimità tra il rappresentante UNHCR e un membro di alto livello della milizia coinvolto nella gestione del centro trova riscontro anche in altre due testimonianze raccolte da Euronews e sulle pagine del quotidiano israeliano Haaretz. Qui si legge che Waleed si riferisce al direttore del campo come suo "cugino".

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Secondo un altro migrante raggiunto via WhatsApp da Euronews, questo tipo di scenario si ripete anche nel centro di detenzione di Abu Salim, vicino al fronte: "Il tipo dell'UNHCR non parla mai con i rifugiati ed è amico della polizia locale". La nostra fonte sostiene che l'ultima volta che l'agenzia delle Nazioni Unite è venuta a registrare qualcuno "è stata 6 mesi fa".

Abbiamo chiesto esplicitamente a UNHCR quali fossero i rapporti tra Osama e Waleed, e della brigata al-Nasr, ma questi punti specifici non sono stati affrontati nella loro risposta.

Una fonte all'interno del centro Az-Zāwiyah ci racconta che Osama e i suoi uomini hanno esploso colpi d'arma da fuoco contro i migranti che si sono rifiutati di seguire i trafficanti a cui erano stati venduti.

"Ci sono stati diversi spari da quando siamo qui. In due occasioni, quando i prigionieri hanno tentato la fuga; in quattro sono stati colpiti alle gambe da proiettili, in due sono stati uccisi a colpi di pistola".

Per ricapitolare: in entrambi i centri in cui ha o ha avuto accesso UNHCR, Qasr bin Ghashir e Az-Zāwiyah, sono stati esplosi colpi d'arma da fuoco contro i migranti.

Siamo riusciti a contattare un migrante dalla Guinea, Moussa (nome di fantasia), che ci racconta come è stato ferito da proiettili ad entrambe le caviglie nel centro di Az-Zāwiyah. Ci dice di essere finito lì dopo tre diversi tentativi di attraversare il Mediterraneo e quattro successivi tentativi di estorsione per essere liberato. Nelle prigioni in cui è finito, a suo dire, è stato ripetutamente torturato. Una volta intercettato in mare dall'unità della guardia costiera di Az-Zāwiyah, collegata alla banda di Osama, Moussa è stato riportato al centro dove è rimasto "due giorni senza cibo". La rivolta scoppiata tra i rifugiati è stata sedata a colpi di pistola. "Un sudanese accanto a me è stato colpito nelle budella ed è morto sul posto. Il suo corpo è stato gettato nel deserto".

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Qualche giorno dopo, Osama il carceriere ha detto a Moussa, gravemente ferito, di contattare una persona chiamata "Mohamed" che ha fissato il prezzo per il suo quarto tentativo di attraversare il Mediterraneo: 3.000 dinari (circa 2.000 euro). Moussa è stato salvato tra le onde dalla nave di Open Arms se si trova ora al sicuro in Italia. È stato più fortunato di quel migrante che è riuscito a fuggire dalla sparatoria di Qasr bin Ghashir con la moglie incinta. Ricordate?

Li chiameremo Mohamad e Aya.

Subito dopo il trasferimento dei 325 rifugiati da Qasr bin Ghashir ad Az-Zāwiyah, UNHCR ha evacuato più di 140 migranti dalla Libia. Quando sono stati chiamati i nomi di Mohamad e Aya, i due non hanno risposto all'appello perché erano già fuggiti dai proiettili. Hanno perso così l'occasione di lasciare il paese per una destinazione più sicura.

Da allora, vivono disperati tra le strade di Tripoli con la loro neonata. Un destino comune alla maggior parte dei richiedenti asilo in Libia. "Abbiamo paura ad uscire", dice Mohamad ad Euronews riferendosi ai pericoli del vivere nella capitale libica senza protezione alcuna. "Siamo scappati dal centro di detenzione perché i militari sono venuti ad attaccarci".

Centro di detenzione di Khoms. Foto: Sara Creta

Ora Mohamad non è ammesso nel GDF (Gathering and Departure Facility), il centro di evacuazione co-gestito da UNHCR a Tripoli, poiché il suo caso non è più tra quelli che hanno diritto al ricollocamento.

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Paradossalmente, scappando dai proiettili, i due neogenitori hanno perso il diritto ad essere portati in salvo dalla Libia con la loro figlioletta. La coppia ha ripetutamente cercato di contattare gli uffici dell'UNHCR sia a Tripoli che a Ginevra, sempre senza alcuna risposta. "Vado in ufficio a chiedere del mio caso e un qualche tipo di assistenza, cibo o un luogo in cui trovare riparo, ma nessuno mi aiuta".

Perché l'UNHCR vuole tenerci in prigione?
Mohamad

Un funzionario UNHCR ha spiegato a Euronews che, a causa dei limitati posti disponibili, i ricollocamenti funzionano in base ad una priorità assegnata per vulnerabilità. Un requisito fondamentale per essere considerato vulnerabile è quello di trovarsi fisicamente in un centro di detenzione, poiché è proprio qui che le condizioni sono peggiori. Chi fugge dai centri non si rende conto che quest'azione avrà conseguenze decisive sulla loro possibilità di essere ricollocati oltre i confini libici.

Possiamo leggerla in questo modo: se i rifugiati vogliono avere qualche possibilità di essere ricollocati, devono rimanere nei centri di detenzione e aspettare. Nonostante tutto.

Continuiamo a parlarne nella ➡️ PARTE 3 di quest'indagine (qui potete trovare tutto il reportage in inglese).

Risorse addizionali per questo articolo • Video: Sara Creta

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